Roma, anni '10 del XX secolo. Una decima e inedita musa spopola ai botteghini dei teatri nelle grandi città: si tratta del cinematografo, arte nuovissima, che fonde (ma anche: sottomette) la tradizione teatrale e letteraria con le pressanti esigenze della produzione industriale. Esso si sta già imponendo a livello delle masse urbane con la stupefacente forza di una rivoluzione: il cinematografo infatti stravolge abitudini e stili di vita, modi dello sguardo e del pensiero.
Serafino Gubbio è operatore alla Kosmograph, casa di produzione cinematografica capitolina. Sua è la mano che gira «la manovella» evocata nel titolo: ogni giorno infatti, Serafino offre in pasto metri e metri di pellicola alla sua «macchina da presa», un aggeggio meccanico dai tratti mostruosi, vero e proprio vampiro che si nutre succhiando vita e risputando forme-illusioni. La «macchinetta» imprigiona gli attori quali ombre evanescenti su una tela, ve li condanna espropriandoli della consistenza reale del loro corpo, esiliandoli in un limbo fantasmatico. «La tigre» è invece l'unico capro espiatorio destinato a morire di morte «vera» sul set della quotidiana farsa cinematografica: ma innocente e sensuale com'è, quindi feroce come la vita stessa, sarà proprio essa a rimettere in discussione il destino di tutti gli altri personaggi.
Nell'anno in cui una nuova rivoluzione, quella del digitale, sta per mandare definitivamente in soffitta la pellicola delle origini eroiche del cinema, La tigre e la manovella porta in scena una favola umoristica consacrata all'epica del muto: una caustica critica alla disumanizzazione indotta dalla modernità e veicolata dalla progressiva meccanizzazione della vita quotidiana.
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