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FRAMMENTI
ARCHITETTURA CONTEMPORANEA NELLA TUSCIA
Alfredo Giacomini


PREFAZIONE DI
ALFREDO PASSERI


Architettura ed edilizia
Il mestiere di architetto, come tutti i mestieri, si può fare in due modi: o essendo molto specializzati e, quindi, competenti di un solo argomento, oppure a «tutto tondo», cioè sapendo di tutto e applicandosi al meglio su tutto. Apparentemente la prima categoria sembra più semplice e la seconda più complessa, ma non è così. Tutte e due tali categorie sono molto articolate e differenziate. Lo specialista deve camminare in una direzione e in questa direzione troverà gli entusiasmi, le motivazioni, le ispirazioni del proprio lavoro scientifico: soltanto quando avrà appreso ed avrà prodotto alternative ai passaggi precedenti, si considererà soddisfatto. L’architetto a «tutto tondo», invece, è colui il quale si occupa di molte cose, anche differenti tra loro, ma nello stesso tempo, continua ad approfondire la sua cultura umanistica, storiografica, da ricercatore puro. Anche e soprattutto da uomo di biblioteca o di cantiere, mirando alla propria preparazione professionale. Egli è, quindi, una figura autonoma di «esperto» del patrimonio edilizio ed ambientale, competente dei piani e delle architetture della città, della produzione edilizia e dell’industria delle costruzioni, della valutazione, conoscitore della contrattualistica nelle transazioni, ecc. L’architetto a «tutto tondo» si pone in quella tradizione storico-culturale della nostra Nazione, ricca di figure umanistiche legate a doppio filo all’architetto-costruttore, all’architetto-ricercatore, all’architetto-urbanista.
I tratti appena descritti a «tutto tondo», ben si conformano alla figura di Alfredo Giacomini che tanto ha dato in conoscenza della realtà architettonica e edilizia della Tuscia. Con particolare riferimento a ciò che di buono è stato realizzato in almeno cento anni a Viterbo e nella Tuscia in generale. Conoscere per catalogare: questo l’obiettivo di Giacomini, per una «classificazione tipologica possibile» (per tipi, per spazi aperti, per tracciati, per organismi speciali) utile agli architetti militanti. A beneficio di coloro che intendono l’architettura unicamente «interna alle regole», lontana da condizionamenti o da inibizioni.


Ricerca e architettura
Nella nostra professione, oltre agli intrecci dei rapporti con i privati o con le Pubbliche Amministrazioni, vi sono ulteriori possibilità. Comprese quelle di lavoro, come è ovvio, nella ricerca. L’occasione di trasformare una ricerca in un lavoro vero e proprio è uno degli argomenti sui quali si discute molto, tra noi professionisti, attenti come siamo alla «fattibilità». Qui il segreto del lavoro di Giacomini: ipotizzare che «esempi virtuosi» (come quelli descritti nelle sue 100 e più schede) possano avere una benefica influenza sugli architetti impegnati. Insomma, il miglior vademecum possibile per chi voglia progettare e costruire con sapienza. Tale intento inerisce l’identità professionale e culturale del mestiere di architetto: è una scelta di coerenza.
Molti professionisti decidono di non mettere nel conto la qualità. È una scelta degenere e, ahimè, consapevole, soprattutto se il committente non la richiede. Allora, la qualità diventa superflua. Non badando alla qualità, si fanno le cose che abbiamo sotto gli occhi: brutte periferie, quartieri sbagliati, oppure (per paradosso) urbanisticamente corretti, ma di bassa peculiarità edilizia. Ebbene, questa è la città che ha mercato, dove si vendono sulla carta le case prima ancora che siano tracciati gli spiccati delle fondazioni. È una realtà che non va certo sottovalutata. Se si sceglie la qualità non si accettano compromessi. Se si accetta un compromesso, automaticamente si è disposti ad arrivare al secondo compromesso, e così via, fino ad essere responsabile di grandi e piccoli guasti, a volte irreparabili. Un edificio di pessima qualità, normalmente fa parte del panorama edilizio contemporaneo (al quale l’occhio si è addirittura abituato); ma tutti sanno che non è questo un percorso virtuoso…
Ogni architetto - di qualsiasi generazione - ha una propria identità, i propri maestri, i propri poeti, la propria tecnica, il proprio linguaggio. Convinto quanto non mai delle affermazioni che precedono, confermo ciò che andavo esponendo specificamente molti anni or sono: …Al lento tramonto dell’ideologia della crescita e dello sviluppo della città, ha corrisposto [a partire dagli anni Ottanta] un interesse specifico per la storia urbana, per la progettazione all’interno della realtà costruita, per una metodica e paziente ricostituzione dell’immagine ordinata di città… La nostra generazione ha risposto a tale malcelato disegno, approfondendo con più ordine le tematiche della realtà urbana così come si presenta, senza inibizione nel confronto con il passato, trascurando l’inconsistenza del pregiudizio, selezionando con rigore analitico le sfere d’azione della ricerca… Siamo debitori ad Aldo Rossi di averci indicato le silenziose inquietudini che si provano di fronte ad un monumento, in un luogo particolarmente affascinante, per un elemento urbano di rilevanza assoluta... Permango, ancora oggi, della stessa convinzione: un «progetto d’autore» rappresenta il prototipo e può rappresentare un riferimento. Alla maniera dei riferimenti copiosi di Giacomini. Ma copiare, replicando banalmente l’opera del maestro, è una operazione sbagliata. Diverso è il ragionamento che attiene l’ispirazione. È un’altra cosa: si sceglie un architetto anziché un altro, quale riferimento culturale e la sua idea-guida, si elabora un proprio personale convincimento, in assoluta autonomia per l’affidamento di un incarico. Tale elaborazione inventiva è, di nuovo, un compito delicato e sofisticato, ma assolutamente doveroso. Forse, solo così, sarà possibile modificare la tendenza in atto della omologazione, della banale e monocorde ripetizione di volumetrie incongrue che compongono le nostre brutte periferie. Perfino il paesaggio sembra perduto irrimediabilmente... Questi progetti, giusti o sbagliati all’interno dei loro confini, compongono un disegno casuale, che registra tutte le incongruenze reciproche, volute o fortuite. Tutto ciò si legge chiaramente nella forma del paesaggio. Mancano le spaziature che derivano dalla costanza di una regola su un grande spazio, e prevale il ritmo convulso di molte regole variabili in spazi ristretti. Case, fabbriche, impianti, coltivazioni, pascoli, boschi, si alternano chilometro per chilometro. Le varie caratteristiche dei paesaggi storici sono uniformate da una disseminazione monotona di manufatti recenti, che sembrano uguali dappertutto perché non sono stati pensati nei loro contesti. Ogni nuovo intervento deve destreggiarsi in questa selva di fatti compiuti, e quasi sempre fa aumentare il disordine complessivo [L. Benevolo, L’Italia da ricostruire. Un programma per il territorio, Laterza 1996, pp. 4-5]. Ha ragione Benevolo, ma ciò non toglie che le singole e unitarie analisi di Giacomini forniscono un repertorio molto utile alla conoscenza.

Il senso del mestiere e della professione di architetto
Per dare un ulteriore e conclusivo segnale di riflessione, per permettere di contribuire alla più interessante e convincente proposta operativa dedicata alle architetture e all’edilizia di qualità della Tuscia, riporto parte di un saggio inedito di Arnaldo Bruschi che mi consegnò, negli anni Ottanta, Antonio (Toto) Michetti, ingegnere amatissimo dagli architetti, per farmi crescere, per spiegarmi con il suo modo diretto e sensibile e da par suo, quale fosse un percorso da seguire. Detto «frammento» bene si addice ai contributi di Alfredo Giacomini perché racconta, dall’antico al contemporaneo, quale sia la condizione dell’architetto nella storia, per ritrovare una dignità troppo spesso dimenticata.

Ecco lo scritto di Bruschi: “Ormai da tempo, dunque, è stata avvertitala necessità di rifondare l’architettura sulle nuove basi poste dallo sviluppo scientifico, tecnico, organizzativo e soprattutto produttivo legato all’affermazione del mondo moderno (rivoluzioni industriali, etc.). Ma è stata avvertita pure, contemporaneamente, la necessità improrogabile di ricostituire l’unità (tra la rispondenza allo scopo, l’efficienza statica e tecnica), il risultato visivo dell’architettura. E ciò - pur tra mille incertezze, errori, illusorie restaurazioni o soggettive e dispersive evasioni - ha già dato talvolta alcuni frutti. Pure se ovviamente, come ben sappiamo tutti, c’è ancora molto da fare: soprattutto a livello operativo, nel costume, nell’attività di ogni giorno; senza disperdersi, come molti architetti dell’Ottocento, in pseudo-problemi. Dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi, non sono mancati infatti, prima a livello teorico poi anche a livello pratico, reazioni agli atteggiamenti ottocenteschi e tentativi di ricostituire l’integrata unità del fare architettura. Questi tentativi hanno anche portato alla rinascita, ormai da tempo istituzionalizzata e riconosciuta, della figura dell’architetto come, almeno ideale, protagonista del processo architettonico. Tuttavia, sono ancora assai consistenti e periodicamente riaffioranti, specie a livello operativo, i residui del processo storico che, tra Settecento e Ottocento, ha profondamente, e in parte irreversibilmente, trasformato il quadro dell’architettura producendo la frantumazione della sua unità. Di fatto, di fronte a problemi sempre più complessi, è indispensabile - e almeno potenzialmente, estremamente fecondo - l’intervento di specialisti, di tecnici settoriali, di ingegneri. E dunque l’unità dell’architettura nel suo risultato globale va ricuperata e ricostituita su basi diverse da quelle dell’architettura del passato; in quanto le esigenze umane sono cambiate e la scala dei problemi - assai più di quella degli edifici - è generalmente divenuta più grande e la loro soluzione richiede competenze specifiche. Ma l’architetto deve tornare ad essere - come nei cantieri medioevali, rinascimentali e barocchi - il regista, il direttore d’orchestra: di un’orchestra spesso assai più complessa e numerosa (comunque diversa) che nel passato. Deve, cioè, essere lui, in prima persona, il responsabile garante del buon risultato complessivo - non solo di quello visivo e dell’impianto distributivo - ma anche di quello strutturale, tecnologico, economico. Egli deve svolgere opera più che di coordinamento, di integrazione, non di compromesso, tra gli apporti dei diversi specialisti settoriali. Deve anche porsi come principale interlocutore con l’industria e la produzione edilizia, non solo accettando ma anche formulando esigenze (non solo estetiche); ed avanzando, magari con l’assistenza di specialisti ingegneri, nuove proposte. Per far questo egli dovrà abbandonare il suo ruolo da tanto tempo prevalentemente passivo o distaccato nei confronti della produzione edilizia e dei suoi colleghi specialisti; così come non passivo era, nel passato, il suo ruolo nella progettazione e in cantiere, con collaboratori e con gli specializzati esecutori (basti pensare, nelle diverse situazioni storiche, al ruolo dell’architetto nella progettazione e nell’attuazione delle grandi cattedrali gotiche o nell’organizzazione di un grande studio professionale responsabile pure dell’attuazione di opere anche gigantesche come San Pietro, come doveva essere, ad esempio, quello di Antonio da Sangallo il Giovane). Dovrà, in sostanza abbandonare il suo ruolo ottocentesco, solo settoriale, di specialista - in parallelo, scarsamente integrato con gli altri specialisti - di specialista soltanto o prevalentemente nel campo dei risultati visivi: specialista in sola venustas (senza, per questo, rinunciare alla sua posizione di uomo di cultura, anche umanistica e, al limite, di poeta). Dovrà ricordare, soprattutto, che il risultato della sua attività, l’architettura, è il risultato integrato e sintetico di molti aspetti, non la somma di distinte autonome componenti e di settoriali competenze: una sintesi creativa di diverse particolari, grandi o piccole invenzioni che solo egli, attraverso il lavoro responsabile e paziente, può compiere. E non sarà male che anche egli si ricordi che, tra i vari modi spazio - strutturali di concepire l’architettura, non c’è solo quello – astrattamente e strumentalmente esaltato dalla linea vitruviana ed illuminista del moderno pensiero sull’architettura - che tende a ridurre ogni costruzione essenzialmente al solo suo scheletro strutturale. Dimenticando che, normalmente, compito ineliminabile di una normale architettura è quello di delimitare, di circoscrivere, di formare e di proteggere gli spazi della vita dell’uomo in vista delle sue molteplici, variabili necessità. Liberandosi dai luoghi comuni, dalle idee convenzionali (della cui convenzionalità spesso nemmeno più ci accorgiamo), dai tanti tabù imposti da abitudini acquisite (che ci opprimono pure e soprattutto se li accettiamo inconsapevolmente e passivamente), dalle persistenti pigrizie mentali ed aprendosi, in posizione attiva e creativa, allo scambio con gli specialisti dei diversi settori; e con il mondo della produzione e dell’industria, struttura ed architettura cesseranno di essere due problemi distinti. E l’unico problema, quello dell’architettura, troverà inedite soluzioni”. [Estratto da uno scritto inedito di Arnaldo Bruschi dedicato a «Struttura ed architettura», 1984].