Nicaragua, 1983. “Ogni fabbrica, un'invincibile trincea sandinista”, recita il gigantesco murales. Vicino, alcune donne sorridenti imbracciano il fucile. E' una delle foto contenute nella biografia di Ines Arciuolo, A casa non ci torno, edita nel 2007 da Stampa alternativa. Un titolo che riassume l'obiettivo irrinunciabile di tante donne delle classi popolari che, negli anni '70, hanno lottato per la propria liberazione. Arciuolo, operaia comunista di origine napoletana, è stata nel gruppo dei 61 licenziati dalla Fiat a Torino nell'ottobre '79. Tre mesi prima, i sandinisti avevano preso il potere in Nicaragua, dopo una lotta di liberazione durata 18 anni, in cui le donne erano state protagoniste di primo piano. Arciuolo si recherà a Managua qualche anno dopo, quando in fabbrica la resistenza del “popolo dei cancelli” sarà stata spezzata dalla scure delle grandi ristrutturazioni industriali e per lei non ci sarà più lavoro. Per cinque anni, tra esperimenti innovativi, difficoltà e contraddizioni, l'operaia italiana lavorerà nelle fabbriche nicaraguensi, alternando l'officina all'addestramento militare. Dal suo racconto, emergono figure di donne determinate e indipendenti, confrontate a un maschilismo nicaraguense difficile da sradicare, che vede minacciato il tradizionale ruolo maschile. Alcune di queste, compaiono in una pagina di fotografie, guardano avanti verso il futuro, ancora ignare del terremoto che di lì a poco avrebbe cancellato l'ossatura del nuovo stato e le conquiste popolari. Che cosa esprimono oggi quegli sguardi lontani? Quanto distante appare il viaggio di chi, come Ines Arciuolo, voleva vivere finalmente da vicino quel cambiamento radicale che in Italia era diventato un orizzonte impietosamente lontano? Con quali parole si esprime oggi quella “tenerezza dei popoli” cantata nell'82 da Gioconda Belli?
Domande che si riverberano anche in questo libro di inchieste, analisi e testimonianze, dedicato alla tenacia delle donne nicaraguensi dal circolo viterbese dell'Associazione Italia-Nicaragua. Nel capitolo Solidarietà al femminile, Edda Cicogna, del Gruppo Transcultura donna di Genova, racconta il suo primo viaggio in Nicaragua, compiuto nell'83. Scrive: “In tante, in tanti, trasferivamo nel popolo del Nicaragua, in cammino verso una realtà nuova, i nostri bisogni, la nostra volontà di cambiamento. Certo, oggi possiamo dirlo, abbracciavamo quella realtà in movimento con entusiasmo acritico. Avevamo bisogno di utopia, e la confondevamo con la realtà”. E, più avanti, per rinnovare il suo impegno nel presente anche a distanza di tanti anni, Cicogna dice ancora a proposito della rivoluzione sandinista: “Una rivoluzione armata, certo, ma che è stata capace, dopo la vittoria, di puntare sul recupero degli avversari piuttosto che sulla vendetta”… E in quel “certo… ma” si esprime la cesura e la distanza rispetto ai paradigmi del “dannato” Nocevento: il timore che anche la “rivoluzione dei buoni” – l'ultima del XX secolo, l'unica che ha lasciato tracce anche dopo la sconfitta e la fuoriuscita dai riflettori della storia – diventi innominabile insieme a quelle che hanno animato il “secolo dei totalitarismi”.
In Europa, buona parte della sinistra ufficiale aveva voluto leggere nell'esperimento sandinista soprattutto l'elemento del consenso ampio, la partecipazione della chiesa di base, l'abolizione della pena di morte, e la critica agli errori del “fochismo”: un azzardo che – si diceva prendendo a prestito l'espressione di Lenin -, in America latina aveva eletto “l'impazienza ad argomentazione teorica”. Ma l'Europa – con l'eccezione della Svezia - lasciò la “rivoluzione dei buoni”, di cui aveva lodato il percorso elettorale, alla mercé degli attacchi Usa e dell'inevitabile corrosione interna (del quadro dirigente sandinista e del consenso) in un paese sotto assedio. Fedeli al corso intrapreso, dopo la sconfitta elettorale del 1990, con un gesto senza precedenti nella storia delle altre esperienze rivoluzionarie, i sandinisti lasciarono il potere alle forze conservatrici. E i tre governi che seguirono - Chamorro, Alemán e Bolaños – dopo aver smantellato le precedenti conquiste popolari e le infrastrutture di uno stato nuovo, gettarono il paese in un baratro di povertà e corruzione.
Un dato catastrofico per le classi popolari, che però ormai pesava poco sulla bilancia teorica e politica di una certa sinistra italiana, tutta impregnata di “consenso” gramsciano, e ormai attirata solo dal disincanto di fare opinione. Dannato o stinto il Novecento nella “notte in cui tutte le vacche sono nere”, dominava un revisionismo storiografico in cui le ragioni dei vinti posavano ormai alla pari con quelle degli oppressori. Prendeva piede il modello “ongizzato” dei rapporti Nord-Sud: la logica del “progetto” e del “sostegno”, al posto di una lotta alla pari contro il nemico comune. Si prevedeva, anche per il continente latinoamericano, l'insuperabilità dell'orizzonte socialdemocratico come alternanza al liberismo selvaggio, e ci si preparava a bollare come “caudillismo autoritario” la grande ripresa di sovranità nazionale che si sarebbe verificata con Hugo Chavez a livello continentale.
L'unica rivoluzione vincente laureata sul campo nel '900, si è detto a ragione, è stata quella femminista. Ma un certo uso della nonviolenza in senso metafisico e aconflittuale ha spesso ridotto a chiacchiera le potenzialità concrete di quella “rivoluzione”. E intanto, in molte parti del Sud del mondo, la condizione delle donne mostrava una realtà più complessa: un generale arretramento del potere, dei diritti, della libertà femminile in paesi del Centroamerica come il Nicaragua, ma anche una forte ripresa di protagonismo, entrambi invisibili alle lenti edulcorate dell'eurocentrismo. Dal Brasile, alla Bolivia, al Venezuela, dalle campagne ai barrios, indigene, contadine, lavoratrici riprendevano la testa di un gigantesco riscatto sociale. E, come dimostrano i capitoli di questo libro, anche “la tenace resistenza” delle donne nicaraguensi ha continuato un suo percorso nel tentativo di difendere i propri diritti, contro lo strapotere delle multinazionali, l'arroganza padronale o quella delle gerarchie ecclesiastiche: nelle associazioni femminili che portano avanti rivendicazioni di genere, nelle piantagioni di banane o di canna da zucchero, o nelle maquilas.
Una realtà di innovazione e arretratezze che si rivela anche attraverso i dati. In tutta l'America latina, e principalmente in Nicaragua – si legge nel capitolo dedicato al lavoro femminile – le donne hanno un ruolo molto importante nell'economia, ma si tratta purtroppo di un'economia sommersa, per lo più confinata entro gli angusti confini della sfera domestica e, soprattutto, non riconosciuta come rilevante dalla società. Le società latinoamericane sono ancora brutalmente maschiliste.
In tutto il continente, “il 75% delle donne si occupa delle attività domestiche senza alcuna retribuzione, mentre soltanto il 9% ha accesso alle attività agricole”. Il 32,8 per cento delle donne tra i 16 e i 49 anni è vittima di gravi violenze fisiche ad opera degli uomini di famiglia. E il 41 per cento delle donne che lavorano in casa o in ambiti famigliari senza retribuzione è vittima di violenze gravi, mentre la percentuale si riduce al 10 per cento se le donne lavorano fuori casa e percepiscono uno stipendio. Ed è evidente che a essere maggiormente colpite sono le più povere. Secondo Monica Zalaquett, che dirige il Centro de Prevencion de la Violencia (Ceprev), una delle cause dell'incremento della violenza di genere e del femminicidio è la crisi che sta vivendo il modello patriarcale e maschilista nella regione centroamericana. Anche qui, “i cambiamenti di genere negli ultimi anni hanno creato un forte scontro con la mentalità medievale esistente, portatrice di credenze, culture, stereotipi molto radicati”.
Perciò, il progetto realizzato dalle donne di Malpaisillo perché anche le contadine possano diventare proprietarie della terra che coltivano mediante l'accesso al microcredito, viene definito come “una rivoluzione copernicana”: un modo concreto di sfuggire alla sudditanza fisica e sociale dell'uomo. Un progetto che consente alle donne di entrare “nella sfera pubblica attraverso la porta principale e con documento di cittadinanza”. Una modalità già sperimentata negli altri paesi dell'Alba, l'alternativa bolivariana delle americhe dove i governi di Chavez o Morales destinano una parte della ricchezza ai beni e servizi.
“Hoy el amanecer dejó de ser una tentación, mañana algún día surgirá un nuevo sol que habrá de iluminar toda la tierra”, cantava l'inno nazionale sandinista, “Oggi l'alba non è più una tentazione, domani un nuovo sole illuminerà tutta la terra”.
Oggi l'Alba “bolivariana” del continente risuona per più modesti e realisti orizzonti, ed è già molto nello stato di barbarie del mondo. Ma, dal Venezuela al Nicaragua, quella del Socialismo del XXI secolo resterà una parola vuota finché, come mostra la battaglia sull'aborto, si negherà alle donne il potere di decidere sul proprio corpo. Il termometro che a ogni latitudine rivela sempre il grado di progresso di una determinata società è la condizione femminile.
*Geraldina Colotti, giornalista del quotidiano “il manifesto”, collabora come redattrice delle pagine culturali dell'edizione italiana de “Le Monde diplomatique”.
Ha pubblicato, oltre a numerosi articoli, anche raccolte poetiche, libri per bambini e romanzi.
Suoi racconti sono presenti in varie antologie).