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I SANTACROCE: UNA FAMIGLIA,
UN PALAZZO, A ORIOLO ROMANO
Sigrid Epp, Marcello Piccioni


Introduzione

Oriolo Romano, a pochi chilometri dal lago di Bracciano a nord di Roma, è oggi una cittadina di circa 4000 abitanti. Il suo centro, una città ideale fondata dal barone Giorgio Santacroce negli anni successivi al 1562 su un basso altopiano boscoso, si è conservato quasi intatto, racchiuso in una cinta muraria innalzata ancora sotto l’egida dei Santacroce nel XVI secolo. A questo periodo di fondazione risale anche il Palazzo Baronale, che costituisce il limite settentrionale dell’insediamento, oggi chiamato Palazzo Altieri.
La fondazione e la disposizione della città hanno già attirato l’attenzione della ricerca storico-artistica. A. Bruschi vi ha dedicato un articolo dettagliato nel 1966, che si avvale anche del materiale di una parte dell’archivio di famiglia conservato presso l’Archivio di Stato di Roma. Uno studio più approfondito del patrimonio edilizio del palazzo da parte degli architetti Bentivoglio e Magnani Cianetti, in un articolo pubblicato nel 1983, ha rivelato una storia più precisa del suo sviluppo in almeno tre fasi costruttive. C. Bon e R. Möller hanno studiato la decorazione ad affresco del palazzo sulla base di criteri stilistici rispettivamente nel 1981 e nel 1989. Lo scopo delle loro indagini era quello di attribuire gli affreschi al pittore romano Giovanni Baglione o al suo sconosciuto maestro Francesco Morelli. Finora la storia della committenza degli affreschi è stata accennata solo di sfuggita: in un articolo pubblicato nel 1982 dalla storica A. Esposito sulla storia della famiglia Santacroce nel XV secolo, che cita una seconda parte dell’archivio di famiglia, ora in Vaticano, ma non la valuta pienamente. Piccoli contributi alla storia della famiglia, che si concluse clamorosamente per i Santacroce di Oriolo con la decapitazione di Onofrio Santacroce nel 1604, solo 40 anni dopo la fondazione del villaggio, sono stati forniti dagli articoli di Bertolotti.
Nessuno studio monografico ha riassunto i risultati ottenuti finora, tanto che al momento della stesura originale del presente libro, 1996, non esisteva nemmeno una guida di questo palazzo, di proprietà da circa mezzo secolo dello Stato, che i visitatori potrebbero consultare. Ciò è tanto più deplorevole in quanto quasi nessun altro monumento è giunto a noi così intatto nella sua complessità di impianto urbano, architettura di palazzo e arredi pittorici e perché, come in nessun altro caso, si è conservato un materiale archivistico così abbondante. A questa mancanza ha messo un parziale riparo la breve guida a cura di R. G. Cipollone pubblicata nel 2003 per conto del MIBAC. Oltre a quelle già citate, l’Archivio Storico Capitolino di Roma conserva una terza parte dell’archivio familiare, finora non trattata né pubblicata, ma forse la più interessante da certi punti di vista: si tratta di circa 1200 lettere scritte o ricevute dai Signori Santacroce nei decenni in questione, tra il 1550 e il 1600, che, oltre ai dati e alle informazioni che contengono, mostrano gli individui coinvolti nella loro condizione umana e sociale.
Le persone storiche, in quanto committenti, sono il punto di partenza e la base per la corretta comprensione e valutazione dei monumenti oggetto di studio, motivo per cui sono collocate all’inizio.
Le difficoltà, i doveri e le opportunità di un committente profano nel Cinquecento possono quindi essere mostrate nell’esempio del barone Giorgio Santacroce, la lotta di un astro nascente per la posizione e il consolidamento della sua famiglia nella struttura sociale conservatrice e al tempo stesso instabile dello Stato Pontificio. I papi controriformisti Pio V, Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII dovettero impegnarsi per la sua riforma interna ed esterna, non di rado in netto contrasto con gli avversari ideologici, dalla vecchia nobiltà con i suoi privilegi tradizionali ai gruppi religiosi e politici scissionisti emersi dalla Riforma. Ma non era proprio questa l’opportunità per un nuovo arrivato sociale, un homo novo, in grado di cogliere e realizzare le opportunità che si presentavano con energia e un occhio realistico all’innovazione? Così, Giorgio Santacroce si presenta come un uomo di questa «epoca della restaurazione», che ha compreso e utilizzato la proprietà terriera, giunta in dono alla sua famiglia, come base della sua esistenza. Oltre ai problemi tecnici, economici e giuridici, doveva essere cauto nei rapporti con la struttura sociale esistente, travestire ideologicamente e giustificare le sue origini e le sue intenzioni, in breve, procedere in modo politicamente astuto. Il desiderio quasi disperato oppure maniacale di Giorgio Santacroce di dimostrare l’età e il prestigio del suo ramo familiare e quindi la sua integrazione nella società romana è dimostrato dai numerosi stemmi delle famiglie romane a cui i Santacroce si erano associati per matrimonio nel corso del tempo: due appartamenti di tre stanze ciascuno sono decorati con fregi stemmatici.
Il successivo ampliamento della sua residenza testimonia la sua crescente fiducia e comprensione di sé, così come il programma di decorazione ad affresco. Realizzata in una prima fase, la decorazione a grottesche di uno dei salotti dà un’immagine chiara delle idee morali del suo committente. Grazie alla semplice struttura del programma mentale basato sulle favole di Esopo e sulle immagini emblematiche, questo programma può essere completamente decifrato con l’aiuto della letteratura contemporanea alla loro realizzazione, ma presuppone già una solida base di conoscenza letteraria e di capacità associativa dello spettatore contemporaneo. Il filo conduttore del programma è la carriera fiabesca del Giuseppe dell’Antico Testamento, ovviamente non scelto a caso dal committente.
Questo chiaro rimando a se stesso si sviluppa in una raccomandazione morale nelle stanze attigue, da intendersi molto probabilmente come un’eredità spirituale per il figlio e successore Onofrio. Scene accuratamente selezionate dalle vite dei personaggi dell’Antico Testamento, Giacobbe, Eliseo, Davide e Giosuè, offrono, al di là di ogni significato scolastico-tipologico, possibilità di interpretazione molto personali e pragmatiche per il fruitore di questi salotti affrescati. Per noi, gli ausili all’interpretazione possono essere solo i commentari biblici dell’epoca. La scelta del tema può essere classificata come parte di un fenomeno a cui potrebbe essere attribuita tutta una serie di palazzi privati costruiti nello stesso periodo; tuttavia, questo aspetto non è stato ancora preso in considerazione né in singoli studi né in una sinossi. Questa parte dell’indagine deve quindi necessariamente rimanere frammentaria e ipotetica.
Un punto di vista completamente diverso è quello della pratica pittorica dell’epoca. Per quasi tutti gli affreschi è stato possibile individuare i modelli dalla grafica di quel periodo. La ricerca di modelli grafici adatti, anziché quella della personalità del pittore indipendente in grado di tradurre in quadro i soggetti scelti, riflette il rapporto del committente con l’opera. Allo stesso tempo, però, porta la questione del pittore esecutore ad absurdum.
Questa lacuna dell’indagine è una lacuna della ricerca storica dell’arte in generale: il Palazzo Santacroce non può essere paragonato a monumenti contemporanei. La proverbiale «cattiva pittura di terza categoria» dell’epoca con pochi artisti noti ha apparentemente impedito di prestare sufficiente attenzione ai singoli monumenti.