HOME


ARCHITETTURA RURALE NELLA TUSCIA
Alfredo Giacomini


PREFAZIONE DI
GIANCARLO ANGELELLI


Quando mi è stato proposto di scrivere qualche nota introduttiva al libro sui casali rurali della Tuscia, ho accettato con piacere, considerandola un’occasione da non perdere. Credo che tali manufatti contengano una sorta di “seme” architettonico capace di propagarsi in infinite varietà tipologiche e che, per questo, costituiscano una fonte inesauribile di idee sulle quali da tempo ho avviato una profonda riflessione sul senso del progettare e, più in generale, sull’architettura.
Le tante immagini raccolte in questo testo, che ci permettono di dar forma a un passato che fortunatamente in parte ancora ci circonda, prima di essere una testimonianza costruttiva, sono, a mio avviso, il racconto di una vicenda umana. Essa, insieme al fatto architettonico, è il motivo per cui questi edifici, inscindibili dal loro contesto, suscitano in me un senso di meraviglia ogni qualvolta mi trovo ad osservarli con attenzione.
Come in un’allegoria, la loro visione accende il pensiero, evocando ricordi e innescando processi immaginativi che portano a un racconto molto più ampio di quello offerto dalla singola immagine che abbiamo di fronte. Sulla loro presenza è possibile fantasticare, ricostruendo le scene di vita contadina vissuta al loro interno, un’esistenza interrotta e in alcuni casi ancora evocata, in un affascinante stato di sospensione temporale, dalla presenza degli oggetti di arredo. Guardando questi edifici ci sembra di poter ascoltare i ritmi della vita legati alla terra, alle stagioni, alle tradizioni, alla religiosità e ai pochi valori semplici ma solidi.
Poi c’è la natura, che non si limita ad essere un semplice fondale delle due vicende, umana e architettonica, ma entra prepotentemente in entrambe come protagonista, nel bene e nel male. Nelle fotografie del libro è evidente come il processo dovuto ai fenomeni naturali stia trasformando gli edifici ormai abbandonati in rovine e, in alcuni casi, addirittura in ruderi. È interessante anche osservare come in qualche fotogramma, quelli scattati con un campo lungo, la natura sia dominante rispetto all’architettura, relegandola in una condizione di impotenza. Ma la natura è soprattutto il motivo per cui è esistito questo mondo edilizio, costruito sul rapporto con le caratteristiche del suolo, con le condizioni climatiche, con le materie del luogo e con le tecniche costruttive della tradizione locale, e per cui la casa non era un gioco estetico, ma prima di tutto una necessità.
“L’architettura rurale rappresenta la prima e immediata vittoria dell’uomo che trae dalla terra il proprio sostentamento.” In questi termini si esprimeva Giuseppe Pagano nel catalogo della celebre mostra allestita nel 1936 nella Triennale di Milano. Di quel testo, pensato a mio avviso magistralmente, dove tra le pieghe di un racconto apparentemente semplice si nasconde la ricchezza di un messaggio offerto da più linee narrative, ritengo che il contributo più alto sia quando l’architetto istriano attribuisce all’architettura spontanea il merito di raccontarci con chiarezza le origini naturali da cui il fatto architettonico scaturisce. Egli afferma che ciò avviene attraverso la comprensione di “quei rapporti tra causa ed effetto che lo studio della sola architettura stilistica ci ha fatto dimenticare”.
Nella solitudine degli edifici privi di vita, illustrata dalla realtà fotografica raccontata nel testo, sembra palesarsi il rapporto tra causa ed effetto di cui parla Pagano. In essi, la coerenza concettuale coincide con quella costruttiva. Tale sovrapposizione è leggibile grazie all’onestà del loro aspetto esteriore e alla semplicità degli schemi su cui essi si articolano. Il risultato è una forma pensata dalla collettività, nella quale non c’è traccia della componente autoriale e la cui bellezza non risiede né nell’originalità, e oserei affermare neanche nell’originarietà, ma nel fatto che questi edifici siano la conseguenza di una selezione formale che ha continuato a modellarsi nel tempo in funzione delle sue esigenze, mantenendo tuttavia in vita anche elementi costruttivi, indotti da bisogni o fenomeni non più esistenti e assurti a pure forme ornamentali.
Questo patrimonio etico ma anche estetico che l’edilizia rurale ci offre in eredità, possiamo rintracciarlo nello sguardo degli autori, che per raccontarcelo rinunciano a disegni di rilievo e a illustrazioni grafiche, ma decidono di farlo attraverso la sola immagine fotografica accompagnata da una laconica didascalia che ne indica soltanto la località. Per coerenza, non poteva che essere il mezzo fotografico a narrare l’architettura spontanea: per la rapidità di raccogliere materiale documentario e per la semplicità di trasmetterlo anche ai non addetti ai lavori.
Si tratta di un racconto fatto di sole immagini, nelle quali gli autori, con la loro profonda conoscenza dell’architettura, scelgono la parte di realtà che intendono descriverci. Ecco allora che in alcune foto gli edifici visibili solo in parte nell’inquadratura reclamano un’attenzione particolare, rimandando lo sguardo dell’osservatore alla densità materica della pietra, al dettaglio costruttivo di un portale o di una finestra, esaltandone le qualità estetiche. In altre foto, il fabbricato agricolo, immerso nella natura, è posto in secondo piano rispetto a vecchi tralicci, pali telefonici, antiche pompe eoliche e linee ferroviarie. Il risultato è una composizione spontanea ed equilibrata che non può non evocare la parabola loosiana del 1910 “Architektur”, dove solo il contadino e l’ingegnere, a differenza dell’architetto seppur bravo, possono costruire senza deturpare “le sponde di un lago montano”.
È un testo questo, dove accanto al racconto semplice della vita rurale, illustrata dalla presenza di animali e attrezzi di lavoro posti in primo piano rispetto al costruito, convivono narrazioni più colte e raffinate. Originale la foto dove la forma dell’arbusto rampicante di un vigneto, nel suo ripetersi in profondità, viene portata alle estreme conseguenze di un motivo astratto.
Interessante anche l’inquadratura in cui i cavi elettrici, disposti verticalmente al centro della foto, dividono in due parti la composizione, separando i soggetti di architettura e natura pur mantenendoli in perfetto equilibrio.
C’è poi lo sguardo di Giacomini che, prima di essere fotografo, è soprattutto un architetto. Il forte contrasto tra luci e ombre esalta in alcune immagini la purezza dei volumi in pietra; in altre, dove il manufatto è in fase di rovina, le ombre proiettate sui muri dalle strutture lignee di ciò che resta delle capriate diventano elementi architettonici mutevoli ma reali della composizione, unitamente a quelli fissi.
La scelta del punto di osservazione, spesso a livello stradale, come la decisione del punto di vista prospettico di altre immagini, ci permettono di leggere questi edifici del passato secondo una chiave contemporanea, e ciò avviene anche negli scatti in cui il fabbricato ritratto solo parzialmente è ridotto a un’immagine bidimensionale per evidenziarne le linee di disegno.
Lo sfasamento temporale nel quale Giacomini abilmente ci coinvolge, credo sia la prova per cui l’uso del bianco e nero con il quale l’architetto ci consegna questo patrimonio fotografico non sia stato scelto come tributo a un’epoca passata, piuttosto per raccontare con drammatica autenticità, attraverso l’intensità della luce, lo stato di questi edifici, nel contrasto tra la fragilità del loro apparire e la durezza estrema delle condizioni in cui ancora resistono per esistere. Circostanze queste dettate in primo luogo dal loro abbandono, che tuttavia ci permette di apprezzare i singoli elementi architettonici del costruito rurale, liberi dal vincolo della loro iniziale funzione e capaci di indicarci una propria utilitas relativa esclusivamente all’essere parte di un edificio.
Il tetto, le volte, le finestre, le scale, le logge, gli archi, i telai in legno si mostrano nudi manifestando con chiarezza il loro principio costruttivo, in un’architettura fondata su condizioni come tradizione, risparmio, coerenza e dove il massimo risultato si ottiene con il minimo sforzo.
Un insegnamento del fare da cui emerge una sensibilità antropologica, estranea a ogni concetto accademico, dove la figura del progettista consapevole viene decisamente messa in discussione dal “contadino che si mura la propria dimora”. La forma di disagio che si prova come architetti oggi, di fronte all’autenticità e alla bellezza di questa lezione costruttiva, se comparata con molti edifici contemporanei, dovrebbe indurci a una profonda riflessione sullo stato attuale dell’architettura. Premesso che ritengo sia impensabile definire nel tempo presente cosa sia realmente architettura, quanto meno con la stessa perentorietà del passato, credo che il motivo di tale disagio vada ricercato nella metamorfosi delle due coscienze: quella critica del progettista e quella spontanea del contadino, e nella trasformazione del loro rapporto nel tempo.
Fino a qualche tempo fa, il sapere specialistico, seppur molto distante dal fare delle persone semplici, non ha impedito alla sensibilità dei progettisti di tenere in alta considerazione gli esiti costruttivi del mondo rurale. Oltre alla già menzionata esposizione di Pagano, finalizzata a legittimare il funzionalismo in luogo di tendenze retoriche e monumentali dell’architettura di regime, si pensi all’importante presa di coscienza di De Carlo, Cerrutti e Samonà nella Triennale del 1951, o ancora all’enorme successo di “Architecture without Architects” di Bernard Rudofsky, fino a Giorgio Grassi che, in difesa di un’architettura tautologica, riferendosi all’edilizia rurale, dichiara che “ciò che dà forma a ogni singolo elemento è un principio di chiarezza e persuasione rispetto alla riconoscibilità dell’elemento stesso”. 
Accanto a questi esempi virtuosi, è proprio a partire dagli anni ’50 del secolo scorso che in Italia, con il fenomeno del boom economico, ha inizio una serie di grandi trasformazioni sociali, causa di un inurbamento selvaggio e uno spopolamento delle campagne, danneggiando un paesaggio, vanto nazionale sin dai tempi del Grand Tour. Cambia il modo di vivere degli italiani che inseguono il sogno urbano. Tra le conseguenze di tutto ciò, c’è la scomparsa di quella coscienza spontanea di cui sopra, fondata su un sapere pragmatico e un agire quotidiano, e la trasformazione della coscienza critica del progettista, sempre più rivolta all’aspetto tecnico e normativo della professione, per offrire soluzioni immediate ed economiche a urgenti esigenze. 
In sostituzione della coscienza spontanea, oggi c’è una coscienza impura che ha inglobato nelle tradizioni del locale il sapere della globalità. La coscienza critica si è invece profondamente impoverita per la mancanza di posizioni teoriche forti che purtroppo la cultura contemporanea ha relegato ai margini del pensiero, perché distanti dall’unico modello culturale su cui si regge: il sapere tecnico-scientifico. 
In uno scenario come quello appena descritto, dove la profondità del pensiero e la condizione di autenticità non occupano più una posizione rilevante, come comportarsi di fronte a un patrimonio della cultura popolare e materiale che rischia di essere irrevocabilmente cancellato? Non ho chiaramente risposte né tantomeno soluzioni, credo tuttavia che l’edificato rurale raccontato dagli autori nel testo possa essere osservato e interpretato da un duplice punto di vista. 
Da una parte, come materiale da plasmare per la nuova architettura che deve continuare a imparare dalla sapienza costruttiva del passato, evitando di scivolare in pittoresche e nostalgiche rievocazioni. Dall’altra, come patrimonio da tutelare. In questa direzione, le maggiori difficoltà sono dettate dal dover coniugare le ragioni della conservazione del valore storico e paesistico degli edifici con quelle della conversione di questi ultimi a beni strumentali da utilizzare. Penso che la tutela di questi edifici sia la cosa più importante, ma che per evitare il loro abbandono e il conseguente degrado, sia necessario anche un loro utilizzo, ad eccezione di casi molto particolari. Ciò di cui ho certezza, invece, è che il recupero di tale patrimonio non può che avere inizio dalla profonda conoscenza di quest’ultimo.