Davide Ghaleb Editore


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VITA SOCIALE E PALAZZI POPOLARI
DEL BAROCCHETTO ROMANO

Umberto Calamita

Premessa

Il volume offre una storia del modo di progettare e costruire nella Roma a cavallo del 1920, con particolare attenzione ai grandi edifici popolari inseriti nei nuovi quartieri di espansione pianificata (Città-Giardino e Garbatella) e in altre zone della città (Trieste-Salario, Flaminio, Monteverde, Trionfale, Appio-Tuscolano, Tiburtino II ecc.).
Il “barocchetto romano”, stretto tra le grandi ma piatte costruzioni d’epoca umbertina, estranee al territorio, e le linee fredde e pure del razionalismo d’epoca fascista, evidenzia una reazione dell’architettura civile che regala progetti e strutture di gran pregio, non solo alla borghesia medio-alta, ma anche al proletariato romano, ai lavoratori, agli operai, agli artigiani, agli impiegati meno qualificati, non disdegnando concessioni creative ed estetiche in palazzi da cento e più appartamenti e favorendo la vita sociale nei magnifici cortili interni.
Certo, questo modus aedificandi è frutto di compromessi, di forzature continue al Prg modernizzatore della Giunta Nathan del 1909, di concessioni a rapaci costruttori e speculatori fondiari. La Roma del clero e della nobiltà, classi dominanti nella città dei papi prima del 1870, continua infatti ininterrottamente a permettere l’aggressivo saccheggio del territorio a cui partecipa la borghesia liberale e reazionaria dei nuovi governi nazionali e capitolini anche dopo la “Breccia di Porta Pia”.
Roma triplica la sua popolazione nel corso dei primi cinquant’anni da capitale d’Italia ed anche gli affari, visto che il problema della casa diviene il primo cruccio delle varie amministrazioni cittadine nonché dei governi centrali. La disastrosa Prima Guerra mondiale, gli arrivi di migranti1 dalle campagne e le demolizioni di borghetti nel centro città fanno ingrossare le fila dei baraccati e dei richiedenti un alloggio e la risposta istituzionale porta a creare nuove aree edificabili anche in estrema periferia.
Gli edifici popolari in questi nuovi quartieri costituiscono comunque e sicuramente una rottura col passato, un modello anomalo nel panorama architettonico romano, almeno nelle soluzioni estetiche e nei risvolti sociali, purtroppo non seguito e, anzi, scioccamente combattuto dai “palazzinari” soprattutto del Secondo dopoguerra, autori di edifici anonimi, quasi del tutto privi di soluzioni creative, spesso corredati da finiture e materiali scadenti, senza previsioni di relazioni sociali al loro interno e poveri di servizi, mossi dall’unico scopo del profitto.
Ha scritto l’architetto Enrico Mandolesi, recentemente scomparso, nella presentazione del fondamentale lavoro di Cristina Cocchioni e Mario De Grassi sulla casa popolare a Roma e l’ICP nel primo trentennio del Novecento: “La «casa economico-popolare» del momento si inserisce cautamente e ordinatamente nel tessuto urbano ed è impostata con un linguaggio architettonico del tutto analogo a quello dell’edilizia di lusso: il «barocchetto» degli interventi dell’Istituto Case Popolari non ha nulla da invidiare a quello dei palazzetti di via Bertoloni”1.
Ma i giudizi sul “barocchetto romano” e sui nuovi quartieri sono tutt’altro che unanimi. Si va dalle critiche severe di Livio Toschi (che definisce “velleitario romanticismo” gli insediamenti di Monte Sacro e di Garbatella2) e Italo Insolera (che salva solo la lottizzazione intorno a piazza Verbano in quanto inserita nel vigente Prg del 19093) all’entusiasmo di Monica Sinatra (l’isola felice, compatta e piena d’umanità rappresentata dalla Garbatella4) e Alessandro Galassi e Biancamaria Rizzo (autori di una splendida ed agiografica monografia su Città Giardino Aniene5), passando per i molti pronunciamenti riduttivi che parlano di queste architetture come semplice “regionalismo”, “localismo”, “utopia artigiana”, “architettura minore”.
In effetti, come molti studiosi ed architetti avvertono (“Il barocchetto romano non è uno stile architettonico” ha sentenziato in modo perentorio Giorgio Ciucci in un recente convegno6), non si può certo parlare di un vero e proprio movimento e stile unitario per il nostro barocchetto, in quanto sono in esso presenti caratteri provenienti da differenti esperienze costruttive: dal Modernismo catalano-Art nouveau-Liberty alla Secessione viennese, dalle Garden City alla cosiddetta architettura minore del Sei-Settecento.
I progettisti “romani” del Primo Dopoguerra subiscono influenze evidenti ma, grazie all’estrema duttilità e fantasia, riescono a dare caratteristiche ai propri edifici ancor oggi riconoscibili e, soprattutto, apprezzabili. E ciò accade particolarmente per le grandi realizzazioni, quegli edifici popolari che, su mandato dell’Istituto Case Popolari, sorgono un po’ ovunque in città, permettendo sicuramente nuova e decorosa vita collettiva ad indigenti, proletari, operai, impiegati, ma nel contempo concedendo non poco spazio ai rapaci affaristi capitolini.
Secondo Ettore Maria Mazzola, autore di una “controstoria” dell’architettura del periodo, vanno rivalutati gli architetti del barocchetto: “L’analisi degli edifici, molti dei quali nati per scopi utilitaristici, evidenzia la lungimiranza progettuale di questi architetti, che fa di loro dei veri artisti MODERNI. Essi seppero coniugare il presente con il passato e con il futuro, gli interessi speculativi dei costruttori con la qualità della vita e con la qualità estetica delle costruzioni”7.
Tra le caratteristiche peculiari del barocchetto romano possiamo annoverare, a nostro modo di vedere: le inventive soluzioni tecniche che si applicano ai prospetti ed agli ingressi dei palazzi; la vastissima gamma di tipologie d’appartamento; la presenza di spazi verdi collettivi con alta fruibilità; l’estrema adattabilità all’andamento naturale del terreno; la non ripetitività di forme e movimenti che danno luogo a case di volta in volta a blocco trapezoidale, triangolare, tondeggiante, a gradoni ecc. (anche all’interno dello stesso immobile). Tutto ciò è segno proprio e distintivo delle costruzioni romane intorno al 1920, ma soprattutto è “riconoscibile” e ciò significa che è stile architettonico di fatto.
Il racconto, più storico che tecnico, vuol qui privilegiare proprio gli insediamenti dei grandi palazzi popolari ed il contesto in cui gli interventi avvengono. La pubblicazione è corredata da puntuali foto dei complessi edilizi e dei numerosi - festosi e fastosi - particolari costruttivi che hanno fatto attribuire il nomignolo di “barocchetto” all’insieme di questi edifici, a testimoniare la dovizia di intuizioni tecniche ed estetiche.

Note

1 Enrico Mandolesi in: Cristina Cocchioni e Mario De Grassi, La casa popolare a Roma. Trent’anni di attività dell’ICP, Edizioni Kappa, Roma 1984.
2 Livio Toschi, L’Istituto cooperativo per le case degli impiegati dello Stato in Roma (1908-1933), catalogo della mostra tenutasi in Roma nel 1986 (con una scheda su Quadrio Pirani, consultabile online sul sito http://ffmaam.it/GALLERY/0-1161356342-CATALOGHI_8586_IRCIS_visualiza_catalogo.pdf)
3 Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1962.
4 Monica Sinatra, La Garbatella a Roma, 1920-1940, Franco Angeli Editore, Milano 2006.
5 Alessandro Galassi e Biancamaria Rizzo, Città Giardino Aniene, Minerva Edizioni, Bologna 2013.
6 Incontro presso la Libreria ELI, Roma, 24 aprile 2018.
7 Ettore Maria Mazzola, Contro Storia dell’architettura moderna, Roma 1900-1940, Alinea Editrice, Firenze 2005.