L’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale (24 maggio 1915) avvenne tra incertezze e contrasti all’interno delle fazioni che ne propugnavano la neutralità e quelle che invece spingevano per il suo intervento. I neutralisti erano per lo più giolittiani, cattolici e parte dei socialisti. Più consistente era il partito degli interventisti: questo comprendeva i nazionalisti che speravano in un ruolo italiano di potenza egemone, e gli irredentisti che aspiravano alla liberazione delle regioni ancora appartenenti all’Austria ma storicamente sentite come italiane; poi vi era una parte socialista che puntava alla portata economica della guerra per il miglioramento della classe operaia.
Il fronte interventista si divideva tra due filoni di motivazioni propendenti all’entrata nel conflitto: da un lato il sentimento ancora in aria risorgimentale del compimento ultimo dell’Unità d’Italia, dall’altro la visione di questa come potenza imperialistica. La vittoria mutilata di D’Annunzio fu mutila per tutte le correnti: l’Istria e la Dalmazia non erano italiane, gli irredentisti e i democratici, soddisfatti di aver ottenuto Trento e Trieste, avranno in eredità il dualismo culturale a forte personalità tedesca dell’annesso Alto Adige; la sinistra della II Internazionale, secondo la quale il proletariato non aveva patria perché il nemico comune era la borghesia, non resse la prova della guerra degli Italiani, che diedero dimostrazione del loro sentimento nazionale. Anche l’emancipazione femminile ottenuta, per necessità, nel periodo bellico, fu una breve parentesi; le donne, largamente partecipi alla guerra, che avevano saputo dimostrare di prendere il posto degli uomini nelle fabbriche, di saper fare le tranviere, le portalettere, le consegne in trincea, di riuscire a mantenere l’ordine sociale ed economico in una realtà di padri e mariti assenti, furono rimosse dai loro ruoli. Le donne della Grande Guerra saranno consegnate alla memoria futura solo come “buone crocerossine”, nella visione che ribadiva il ruolo tipicamente femminile di assistenza subordinata all’uomo.
Così il 24 maggio diventò una delle date più celebrate dalle istituzioni, entrata a far parte della nostra storia di Italiani, consacrata nella toponomastica dei centri urbani. Soprattutto il 24 maggio è stato mitizzato come punto di orgoglio di riuscita nazionale.
Ma c’è un’altra data sulla quale riflettere, la cui prima celebrazione nel 1921 al Vittoriano ha rappresentato l’omaggio al sacrificio di chi fu chiamato a costruire la nostra Italia: il 4 novembre che ci ricorda il prezzo pagato in vite umane per la vittoria nel primo conflitto mondiale.
L’Italia entrò in guerra con un patrimonio demografico di circa 37 milioni di abitanti. Di questi 5.900.900, cioè quasi sei milioni di persone, furono mobilitati dall’esercito e di essi 4.800.800 vennero impiegati in zone di guerra. Dopo circa tre anni e mezzo il conflitto fu vinto con un costo di vite umane altissimo: 600.000 morti, oltre 700.000 se si contano quelli che morirono per le conseguenze belliche. Gli ammalati furono 2 milioni e mezzo ed i ricoveri complessivamente 5 milioni. In tutto questo 870.000 disertarono almeno una volta. I renitenti alla leva furono 160.000; i processi per insubordinazione 400.000 con 210.000 condanne. Gli ergastoli furono 15.000 e 4.028 le esecuzioni con fucilazione alla schiena. C’è un motivo, appunto, se si chiama La Grande Guerra; queste cifre possono darci solo l’idea dell’entità del sacrificio fatto dagli italiani. E dietro ad ogni unità di questi numeri va ricordato che c’è la vicenda personale di singoli uomini. Si ricordano i gloriosi reggimenti, le azioni eroiche delle brigate, dimenticando, a volte, che al di là del loro corpo unico erano formati da persone con nomi e cognomi; e non c’è cognome italiano che non sia inciso in un Parco della Rimembranza o su un Monumento ai Caduti, che non ricorra nei sacrari e nei cimiteri militari. Così non c’è famiglia ischiana che non annoveri nella sua storia un caduto nella Grande Guerra.
Questo lavoro a quattro mani non ha altra pretesa che ricordare l’identità degli ischiani che caddero sui vari fronti del primo conflitto mondiale, attraverso le notizie esumate dai documenti militari, anagrafici, comunali, parrocchiali, e articoli giornalistici dell’epoca. Ma soprattutto vuole onorare la memoria di quei caduti ischiani di cui si era perso il ricordo della sepoltura e della storia militare; notizie che adesso possono essere note ai compaesani e congiunti. È parso opportuno integrare il discorso con la ricostruzione a livello paesano, inserita nei caratteri nazionali, delle celebrazioni, ricorrenze, inaugurazioni di monumenti dedicati alla memoria dei soldati periti nella Grande Guerra, in concomitanza col centenario dell’ entrata italiana nel conflitto. I dati dei documenti e le parole dell’epoca sono parse la voce più giusta per ricordare quel momento storico, che con un approccio scientifico si può leggere “dal vivo”.
La Prima Guerra Mondiale lasciò come eredità e conseguenze grandi trasformazioni economiche e innovazioni tecnologiche, ma anche l’irruzione delle masse popolari e dell’opinione pubblica nella vita delle nazioni come soggetti fondamentali e protagonisti. Tracciò il confine tra due epoche comportamentali e psicologiche: veniva meno l’ottimismo positivista che vedeva nel progresso un percorso ininterrotto al miglioramento umano, con il rifiuto dell’impostazione illuministica e razionale e del suo esito liberale, democratico. Questa guerra diffuse il senso delle trasformazioni in atto, sia per il carattere estremo della sua esperienza, sia per l’uniformità con cui colpì milioni di uomini mobilitati delle varie regioni, delle varie estrazioni, delle varie filosofie. L’eredità dell’esperienza e della memoria della guerra di trincea ebbe una parte rilevante nella formazione dell’intreccio di nichilismo e misticismo, di credulità e di cinismo da cui nacque poi la cultura totalitaria fascista. Un conflitto che si proiettò ben oltre la fine degli scontri, in un Paese, il Bel Paese ora unito in tutte le sue parti, ma ancora socialmente inquieto. Fu la precoce messa alla prova del sentimento che aveva portato al Risorgimento; una prova di volontà a cui il popolo italiano non fu sottratto, né si sottrasse, dispendiosa e indispensabile.
Dalle colline dei Monti di Castro alle vette di Monte Zebio, dall’acqua verde del nostro Fiora a quella celeste del Piave e dell’Isonzo, i compaesani che combatterono la Prima Guerra Mondiale fecero parte di un esercito di Italiani che costruì il nostro amalgama nazionale, fatto di tante realtà particolari. Il milite ischiano nella sua esperienza bellica ascoltò dialetti sconosciuti, conobbe usi diversi da quelli del suo paese natale, ed i fortunati che tornarono a casa, tornarono con la visione di tutto lo spaccato italiano con il quale avevano condiviso momenti di sconfitta e di gloria. Anche il paese di Ischia visse, lontano dal fronte, la sua guerra. I suoi uomini andarono a combattere; alcuni tornarono con storie da raccontare, più o meno eroiche, altri fecero ritorno invalidi, altri ancora, molti, non tornarono più. A tutti costoro, citati nelle prossime pagine, l’onore della memoria.