DA CASARSA A CHIA. I LUOGHI DI PIER PAOLO PASOLINI |
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Nell'ambito di DA CASARSA A CHIA. I LUOGHI DI PIER PAOLO PASOLINI con il patrocinio del Comune di Soriano nel Cimino il Gruppo Archeologico Roccaltìa e la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale PRESENTANO DI UNA TORRE E DI UN BOSCO Passeggiata-racconto in compagnia dell'ultimo Pasolini a cura di Antonello Ricci e Silvio Cappelli e con la Banda del Racconto Domenica 20 giugno, ore 10.30, parcheggio al km 16 della Via Ortana Interludi musicali Lea Mencaroni (oboe) Olindo Cicchetti, poeta delle ceneri TORRE PASOLINI di Antonello Ricci Nei pressi di Viterbo, mentre gira le prime sequenze del Vangelo Secondo Matteo, Pasolini visita un fortilizio medioevale abbandonato. Se ne innamora. È la primavera del 1964. Nel 1966 scrive che vorrebbe andare a vivere dentro quella Torre che non può comprare, «nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta innocenza di querce, colli, acque e botri». Al poeta friulano sembra che – in quel luogo incantato – la natura abbia giocato a fare il verso all’arte, illusa innocenza d’un cosmo perfetto e gioioso. L’acquisto del diruto immobile si realizza nell’autunno 1970. Pasolini vi soggiornerà spesso negli ultimi anni di vita. Spedirà da lì non poche delle sue Lettere Luterane: l’estrema denuncia dell’apocalisse antropologica (le aberranti derive culturali indotte dal potere neocapitalista sul tessuto più intimo della vita nazionale, sul millenario patrimonio artistico, sul paesaggio agrario e sulla forma delle città). Intimamente connessa e necessaria a questo tema sarà l’appassionata, profetica invocazione del Processo alla corrotta casta democristiana, colpevole d’un «errore di interpretazione politica che ha avuto conseguenze disastrose nella vita del nostro paese». Nella Torre Pasolini attende pure alla sofferta stesura di Petrolio. Ed è proprio nel romanzo incompiuto che un’altra volta (sempre di fronte a un gesto di acrocori vulcanici) il regista-scrittore evoca il poeta del Furioso, entro un’aura di umanistica, pensosa commozione: «Una dolcezza selvaggia, ariostesca, aleggiava sui borri profondi, sui semicerchi di prati falciati contro il verde più cupo dei boschi mediterranei». Solo che qui Pasolini intende una non meglio identificata Isola Borghese. Ovviamente lasciamo ai patetici cultori d’un localismo a oltranza la disputa sull’esclusiva di tanto accattivante oleografia d’autore. Perché un’altra è la questione: il senso vero di quell’aggettivo, che torna per entrambe le vedute, più che alla cosa in sé (ai panorami reali in quanto tali) mi pare consegnato alla necessità di leggere questi ultimi nel corpo dell’opera pasoliniana: intesa essa stessa quasi fosse un territorio. C’è un punto-chiave nella celebre lettera del Processo; quando Pasolini (che scrive «in mezzo a un bosco di querce») ci suggerisce la «immagine dei potenti democristiani ammanettati tra i carabinieri»: «Sono solo, in mezzo alla campagna: in una solitudine reale, scelta come un bene. Qui non ho niente da perdere (e perciò posso dire tutto), ma non ho neanche niente da guadagnare (e perciò posso dire tutto a maggior ragione)». Ecco: l’estremo rifugio pasoliniano, il paesaggio più bello del mondo, svela la propria natura “araldica”: pomerio che incanta e protegge, circonda ogni cosa e la sospende, intorno a una Torre. Intorno a una macchina da guerra culturale affacciata, in realtà, sull’orizzonte di altre praterie (invisibili, queste), s’un paesaggio morale ben più vasto e inquieto del rasserenante bosco di querce inquadrato da quelle feritoie. Lì il poeta-regista sarebbe rimasto di vedetta, lucido e infaticabile, a scrutare gli affollati, repentini e indecifrabili mutamenti, il subbuglio del primo Dopostoria. È proprio all’ironia ariostesca, perciò, al sorridente distacco offerto allo sguardo da quel panorama, che Pasolini dovette l’inconfondibile limpidezza argomentativa, l’aspra chiarità della sua estrema produzione. |