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Con il patrocinio del Comune di Soriano nel Cimino e Associazione Culturale presenta PASSEGGIATA PIRANDELLO appuntamento ore 17.00 presso parcheggio comunale “Campetto dei Frati” a Soriano Partecipazione a sottoscrizione La Banda del Racconto: Pietro Benedetti, Olindo Cicchetti, Sara Grimaldi Un sentito grazie al sindaco di Soriano Fabio Menicacci L'iniziativa si inserisce nell'ambito della III Edizione del Festival programma previsto per domenica 19 giugno parcheggio “Campetto dei frati”
Per saperne di più su Pirandello a Soriano (schede di a.r.): 2. Come da un’infinita lontananza... Non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome: vivere per vivere, senza saper di vivere... “Si tratta di un passo che Pirandello ha utilizzato più volte, quasi senza cambiar parola. E’ nato con tutta probabilità da un foglietto, o da un appunto forse scritto in una delle sue villeggiature alle falde del Cimino.” (Giovanni Macchia, “Luigi Pirandello” in Storia della letteratura italiana IX, Il Novecento, Garzanti, Milano 1969, p. 449). Pirandello, e quel suo sogno di fuga dalla coscienza, dal rito funebre del nome, dalla vita che conclude. Un inno alla gioiosa insensatezza delle cose, un languido invito a smemorarsi in esse: morire ogni attimo e rinascere, nuovo e senza ricordi, non più in sé ma in ogni cosa fuori. Da questa novella d’ambientazione sorianese (Canta l'epistola), un fascio d’immagini, quasi un arcaico formulario di propiziazione, irradia su non poca parte dell’opera pirandelliana. Riaffiora puntuale, qua e là, torna come una mnemotecnica d’affetti; e come un repertorio di temi musicali, viaggia divorzia si ritrova. Profilando un vero e proprio viaggio critico - segreto - nell’arte dell’autore girgentino. Quel come da un’infinita lontananza, ad esempio, a cospetto “della grazia e della soavità della campagna umbra”, rintoccherà ipnotico in mente al protagonista de La carriola (1917), di ritorno in treno da Perugia a Roma. Oppure, il fragor di mare di cui s’è già accennato per Pian della Britta: dopo Canta l’Epistola, con leggera variazione, diventerà il sordo fragorio del mare che chiude la novella Colloquii coi personaggi (1915): Pirandello, quasi in un sogno di luttuosa solarità, rivede e parla con la madre morta. Non ha granché rilievo che qui, al posto dei castagni sorianesi, siano le acacie del suo giardino a Roma, a ricondurlo in Sicilia (anzi). E quel fruscio lungo, continuo, che contrappunta l’ombra lenta e stanca della stanza - ombra che brulica: presenze fantasmatiche premono ai bordi della scena, invocano, per essere evocate - ci guida dritti alla Figliastra dei Sei Personaggi: “... anch’io, signore, per tentarlo, tante volte, nella malinconia di quel suo scrittojo, all’ora del crepuscolo, quand’egli, abbandonato su una poltrona, non sapeva risolversi a girar la chiavetta della luce e lasciava che l’ombra gli invadesse la stanza e che quell’ombra brulicasse di noi...” Poi: come non divinare, in quei picchi d’accetta su nel bosco dei castagni (e picchi di piccone giù nella cava), almeno un pronostico della trionfale alacrità de I Giganti (1931)? Di quegli scavi e fondazioni, deduzioni d’acque, fabbriche, strade, colture agricole, con cui essi hanno sconvolto il mondo, convinti di poterne domare (e redimere) la sfuggente natura. A poca distanza dalle falde boscose della loro montagna, presso la villa della Scalogna, tra una calata d’angeli e magiche apparizioni di lucciole, l’incompiuto dramma di Pirandello si svolgerà nel segno di Cotrone e delle sue perenni, inarrestabili metamorfosi. Tutte queste immagini, inoltre, ed altre ancora (la sterminata azzurra vacuità; la vanità dello spazio, e d’ogni cosa; gli alti monti di là dalla valle, lontani lontani), si dànno, non a caso, appuntamento in Uno nessuno e centomila (1915-1926), vero e proprio romanzo-laboratorio pirandelliano. E’ sorianese dunque, e senza dubbio, quella passeggiata in montagna, ai paragrafi VIII-X del Libro secondo (per il IX in particolare, Nuvole e vento, si rilegga la nota di Macchia), compreso il monologo interiore di Vitangelo Moscarda (ripescato, passo passo, dai pensieri del Tommasino Unzio di Canta l’Epistola). Ma sorianese è pure - qualcuno l’aveva già notato - il luogo amenissimo dell’ospizio, dove il protagonista si ritira per il resto dei suoi giorni. E quella frescura d’alba, proprio a congedo di romanzo, quella luce che non acceca ancora, che non brucia le cose nella prigione della loro forma: scusate, ma io ci rivedo gli azzurri, ed il verde dei Cimini. |