GARIBALDI E GARIBALDINI INMAREMMA |
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LEPASSEGGIATEDELSANTOEDITORE Domenica 25 maggio – ore 10.00 Appuntamento a Ischia Di Castro DAVIDE GHALEB EDITORE e
Biglietto: acquisto di un libro a scelta
in collaborazione con |
di Antonello Ricci Prima viene una torre. La leggenda di famiglia recita che fosse la più alta e la più bella di una città bianco-macco affacciata verso il mare come un'altana favolosa. Città ricca: con più di cento torri. Una città di etruschi e medioevo, chiamata capitale di maremma, dove vento e polvere erano d'ogni stagione. Questa città avrà pure avuto un nome, ma su questo punto la leggenda di famiglia tace. La storia prosegue poi che un giorno il vento cambiò: venne un tempo di povertà e la torre dovette esser venduta, con tutti gli altri beni al sole. Caricati sul carro i quattro stracci rimasti, la famiglia se ne partì in esilio per un paesino dell'interno. Il paese più povero di tutti. Povero quasi come nelle fiabe. Povero da tempo immemore e per sempre. Povero oggi – recitano le statistiche – proprio come allora, in quel tempo out of mind che scandisce ogni leggenda degna di tale nome. Le generazioni si avvicendarono: le leggende, si sa, non hanno fine. Finché non venne un patriarca di nome Giacomo, che mise al mondo sette figli. Uno di questi sette, il penultimo, era una femmina: mia madre Annunziata. Giacomo era uno di quelli che si sfilava la cinghia dai calzoni se uno di quei suoi figli nascondeva per gioco il pane tra la madia e il muro. Venne allora la polmonite che se lo portò via, così che per mia madre ebbe principio un nuovo esilio. Perché gli esili sono un po' come leggende: non hanno mai fine. E mia madre vide le bombe americane e i baschi dei ragazzi di Salò su ai confini del nord-est. Poi anche la guerra finì e mia madre poté tornare a rivedere la terra di suo padre. Ma per via di quell'esilio restò per sempre ciarliera e triste. Venne un giorno in città, a Viterbo, dove conobbe un omino. Era un omino buono, si chiamava Pietro. Ma Pietro era anche ombroso e taciturno, incapace di tirar fuori tutto il suo indifeso amore. Orfano da quando aveva dieci anni, era un geometra e sapeva aver cura di sé solo nel suo lavoro. Mia madre lo sposò lo stesso. Fu un matrimonio senza il dono prezioso del vero amore. E mia madre mise al mondo – in esilio – mia sorella e me. Io mi chiamo Antonello, come il figlio del presentatore Mario Riva, e il mio ricordo più antico si perde nelle brume di questa leggenda di famiglia: il corpo della nonna composto nel letto della sua casa di via Annibal Caro, giù giù in fondo al Di-dentro di Ischia di Castro. Quattro moccoli accesi agli angoli del catafalco. Proprio da Ischia poi, io che pure non ci ho vissuto mai, sempre mi sono sentito – chissà perché – come in esilio. Ma una leggenda non ha bisogno di troppi perché. Troppa zavorra. E così, ora che mia madre è morta da molti anni (e che nessuno, fra tutti quelli che conosco, sa più ciò che lei sapeva ricordava raccontava) ebbene, quella leggenda ho principiato a raccontarla io. Io sono la leggenda. Questo ircocervo di ricordi emozioni immagini parole mi ha colto di soprassalto sfogliando il bel saggio di Maura Lotti, Terra e Unità. Ischia di Castro nel Risorgimento edito sul finire del 2013 da Davide Ghaleb editore, il santissimo. Sapevo bene che Ischia e il Castrense erano stati culla e fornace di ideali e lotte garibaldine: dal proclama di fratellanza con le truppe francesi dettato nell'aprile 1849 – a monito libertario – «dalle ruine di Castro» (Cartagine di Maremma rasa al suolo dalla ferocia del sale papalino)alle sparatorie tra diavoli rossi e soldati del papa-re nel rovente quanto piovoso autunno del 1867. E avrei potuto forse intuire anche da me che non fu un caso se gli ideali democratici e mazziniani fecero particolare presa proprio a Ischia – comunità secolarmente affamata di terra e di lavoro – avvinti come furono al sogno borghese e popolano di una emancipazione dall'ordine millenario del sopruso feudale. Così come avrei potuto fantasticare a occhi aperti – anche senza prima averne letto – quei sentieri nel fitto della Selva del Lamone (tortuosi ancora nel secolo XIX come già ai tempi della Comedìa dantesca) percorsi nottetempo, di qua e di là dalla Fiora, da contrabbandieri e streghe, briganti e doganieri, cavalli e cani bianchi, dèi psicopompi e patrioti: tutti insieme, appassionatamente, come in una novella di Boccaccio o in una fiaba dei fratelli Grimm. |