L'ATTIMO VERO - LINDA ARMELIUS
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Prefazione di Claudio Damiani

C’è nella poesia di Linda Armelius uno scambio continuo, quasi invisibile, come una reciproca osmosi, tra dentro e fuori, io e mondo, corpo e paesaggio, che è anche un continuo, invisibile anch’esso, perdersi e trovarsi. È una poesia tutta tesa all’ascolto di moti impercettibili e impercettibili silenzi, echi tra un moto e un moto, attimo e attimo, come se quel fluire invisibile dell’osmosi battesse contro qualcosa o rimbalzasse contro se stesso e involontariamente apparisse.
Mi viene in mente Rutherford che spara particelle alfa contro una lamina d’oro, per cercare di capire come è fatto l’atomo. Le particelle attraversano gli atomi d’oro che, come tutti gli atomi, sono fatti quasi solo di vuoto, come anche noi siamo quasi solo vuoto, e i neutrini solari ci attraversano ogni momento senza accorgersi di noi. Ma a un certo punto una particella ritorna indietro. Scrive Rutherford: “Era quasi incredibile come sparare una granata da 380 millimetri contro un pezzo di carta velina e vedersela rimbalzare addosso”. Il grande scienziato aveva scoperto il nucleo, e dato il via alla fisica nucleare.
Nella poesia che dà il titolo al libro, L’attimo vero, ci ritroviamo dentro un attimo, l’unità più piccola pensabile di tempo. E, dentro l’attimo, percepiamo un suo aprirsi, che è come una piega, un riverbero, ma al tempo stesso uno squarciarsi, come l’aprirsi della terra su cui poggiamo. E ecco che sprofondiamo, ci perdiamo, ci ritroviamo, moriamo e nasciamo a un intervallo immisurabile, più lungo di tutto il tempo medesimo.
Quando ho letto per la prima volta questi versi, mi sono sentito anch’io sprofondare e risollevare, ma non era come un navigare su onde, non avevo mal di mare, non ci capivo molto, ma non me ne preoccupavo, mi sembrava di camminare dentro qualcosa di immateriale, mi sentivo sospeso e leggero, un po’ stordito ma netto come un granello di polvere nell’aria.
È come se l’osmosi che costituisce questa poesia, non è tanto qualcosa di rappresentato, ma un’esperienza che il lettore fa, leggendo, un viaggio oltre il visibile, “percezione vaga del di là”. Come se l’essere stesso, il tempo, fossero questo entrare e uscire, questo battito.
Voglio dire che questa è una poesia difficile, sì, ma a cui bisogna abbandonarsi, è una poesia che richiede concentrazione ma al tempo stesso ce la toglie, come se ci concentrassimo non tanto su noi, ma fuori di noi. E ecco anche allora l’appartenere di questa poesia a un’età nuova di realismo in cui stiamo tutti entrando, un ritorno dall’io al fuori, un ritorno alla natura.
Non c’è qui la verticalità dell’io moderna e novecentesca, l’abisso dell’inconscio col suo desertificante deserto, non c’è psicologia, analogia, surrealismo, ermetismo. C’è il desiderio di conoscere la natura, il tempo, il mondo. Ciò che non è dentro, ma dentro e fuori, ciò che è il tutto, quello che gli antichi fisici greci chiamavano fisis appunto, natura.
C’è la fede che la poesia, lungi da essere gioco, o narcisismo, o solipsismo, possa capire qualcosa della natura, come la scienza, accanto alla scienza. Che oltre alla vertigine, allo smarrimento, allo straniamento, si possa poggiare su qualche cosa di solido. Si possa finalmente riposare.
Si tratta di andare verso un ordine più grande “al di là dell’uomo”, verso “venature precise sulla lunghezza della foglia” che sono per noi nuovi binari:

Scende alla terra e rivede
i sentieri tracciati della vita
nell’andare cieco delle formiche.
C’è un ordine nel cuore delle cose.

 

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