Presentazione
Antonello Ricci
Libro di bilanci: così si annuncia questo intenso Ballate sul mondo di Gianni Abbate. Bilanci per privilegio e per necessità-virtù d’anagrafe, direi, ma anche per maledizione dei mala tempora che sempre currunt – si sa. Ma che in certi passaggi, come questo nostro d’oggi, imprimono negli spiriti sensibili accelerazioni-visioni d’apocalissi. Libro caustico e risentito, Ballate sul mondo, eppur sempre-perdutamente innamorato della vita: non sorprenderà tale ossimoro però tutti coloro che – come me – hanno ascoltato e mandato a mente i leggendari racconti di Gianni intorno a certe scopette al tavolino coi fratelli Giuffrè, in camerino, prima di ogni replica. La civiltà in una mano a carte. Libro di pietas e nostalgia di Umanesimo. Libro arrembante e umanissimo, voglio dire. Colmo di pietas. Partenopeo e universale. Ma anche libro nuovo-inaudito, per chiunque abbia qualche familiarità coi dèmoni sempre in scena sul palco interiore di Gianni ed abbia ben presenti i suoi precedenti esiti di scrittura. Libro anche di rilanci perciò.
Per ciò che riguarda i temi, anzitutto: su tutti, e drammaticamente, il Tempo. Tempo tiranno: Tempo che corre e tutto-spiana e devasta, che ogni cosa divora, vorace e impietoso; Tempo che manca, come ci manca il fiato nell’affanno. Tempo che abbiamo sprecato e non tornerà più. Tempo delle occasioni che abbiamo perso e non si ripeteranno. Anche a questo giro di giostra della specie (giro che – non si sarà troppo risentiti-pessimisti a esser d’accordo con Gianni – potrebbe davvero risultare l’ultimo!); a questo giro di giostra della specie umana, noi in piedi sul predellino, a cospetto del terribile morbo, della sua pandemia, del cui trauma, ancora una volta, non abbiamo saputo approfittare (non è provocazione, solo buon senso popolare): per volgerci a un silenzio fecondo, alla contemplazione, all’ascolto di una parola essenziale e umanistica, quella poetica, parola-teatro, parola-pensiero, parola sincera; approfittarne per smentire e redimerci così da un tempo-spleen-orrore di menzogne disumane, di parole-sensazione, di ciance e ipocrisia, di propaganda e sciagurate azioni contro-natura. In altri termini: dall’omologazione consumista globale, dal profitto-a-prescindere che sta divorando-demolendo l’intera casa-madre che abitiamo, la Natura, mettendo a repentaglio noi stessi come specie, la Vita-dono-in-quanto-tale. Animale immorale, ottuso-superbo, l’uomo, cui perfino il Tempo, che pure sa esser galantuomo, è giunto infine a negarsi. Per ritrovarci così, qui, all’ultima spiaggia, all’ultima-estrema Thule: terra di fuoco e ghiaccio, dove il sole non tramonta mai, mentre noi, accovacciati ai piedi di sterminati-immensi cumuli d’immondizie e macerie e veleni non sappiamo neanche più guardarci negli occhi, non sappiamo neanche più donarci una carezza reciproca. Disperati sì, epperò mai arresi, Perché in queste sue Ballate sul mondo Gianni, qua e là, sembra ancora covare una speranza residua. Ultimate. Prima che sia davvero troppo tardi: desiderare arrendersi all’innocenza di un Tempo diverso, wormhole che solo l’abbandono più umile all’amare, all’accogliere, al prendersi cura dell’Altro, del principe che dorme in ognuno di noi, sa dischiudere.
Ma un libro è nuovo, nuovo davvero, voglio dire, anche e soprattutto perché la sua forma è davvero inedita. E proprio in ciò, a mio modesto avviso, si manifestano le novità più interessanti, sotto il profilo della tensione artistica, di queste trascinanti Ballate abbatiane. Il loro dettato si muove in versi – e che versi! Vi dominano la sofferta rinuncia a qualunque punteggiatura (tranne le maiuscole iniziali, destinate a marcare le ripartenze frastiche); un uso ritmico incessante, quasi ossessivo dell’iterazione; le pirotecnie dei calembour, che giocano d’azzardo con ambiguità sintattiche e usure della semantica quotidiana, sbattendo in un caleidoscopio-frullatore sensi e doppi sensi, significati comuni e traslati, significanti colti e dialettali, sciarade e malintesi. Tutto ciò, sapientemente trascritto-orchestrato da mani ricche di esperienza (una vita impegnata a corpo a corpo con il prisma di una parola sempre-detta ad alta voce, sussurrata-sillabata-urlata non importa) e da un orecchio visionario intriso di una sapienza dai tratti sciamanici, ispirata signora del tempo musicale e della pausa. Tutto ciò sorprende e comprende, trascina e trascende il lettore in uno stato magnetico, quasi letteralmente di trance. Un libro in versi, ma non di poesia: teatro piuttosto.
Per cui c’è anche, infine, dell’altro ed anche più importante. La pasta stessa – sfingica e alabastrina – di queste Ballate a me pare al tempo stesso arcaica e dopostorica. Antica perché la loro parola, scandita per versi affilati, evoca per baluginii l’astratto dolore-catarsi di una tragedia greca, un passo appena prima della catastrofe. Contemporanea, invece, perché il suo incessante desolato-disarmante ed enigmatico soliloquio-borbottio avanspettacolare e cabarettistico, così vertiginosamente attratto dall’insensato con vaghe eco da Finale di partita, sembra sorgere dalla preistoria di una schizofrenia antropologica elementale: evocando, promettendoci-premettendosi ossessivamente come in duetto con una voce seconda e Altra e rivelandoci così Gianni in attesa del suo Godot. Gianni è Vladimiro ed Estragone al tempo stesso. Perché la voce è dentro. E il duetto va in scena, si consuma nella mente-carne teatro dell’autore. A prescindere dalle numerose-volenterose rassicurazioni pronominali e da certi accenni da didascalie di copione, Gianni si rivela al lettore sull’orlo della follia. E, dunque, della saggezza assoluta. Una saggezza dolce e riconciliata che saprà tornare ad aver cura di quel Mondo, il nostro, che abbiamo sciaguratamente fatto a pezzi.
|