DRUG GOJKO
Pietro Benedetti
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Presentazione
di
Giuliano Calisti
(Cominato Provinciale ANPI Viterbo)

Io abito ai Castelli Romani, e quando scendo a Roma, spesso riesco a vedere in lontananza i monti Cimini: allora penso che dietro quei monti c’è Viterbo, la città dove abita Nello Marignoli, partigiano viterbese combattente in Jugoslavia; sotto quei monti abita anche Pietro Benedetti, di cui dirò tra breve.
Immagino Nello nel salone di casa sua, seduto sulla poltrona di pelle, mentre con quel suo sguardo più penetrante del tubo catodico della TV, maledice l’ennesima guerra moderna riproposta dal telegiornale, per poi ripensare alla sua di guerra, anch’essa voluta dai politici, e non dai popoli.
Questoè il messaggio chiave, se si vuol capire che cosa abbia significato l’occupazione fascistai taliana per le popolazioni jugoslave e per i militari italiani che, come Marignoli, hanno combattuto al fianco dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo (EPLJ) capeggiato da Tito.
Molti anni fa, conobbi l’attore ed antifascista Pietro Benedetti, apprezzandone professionalità e passione.
Conoscendo la storia di Nello Marignoli, ho pensato subito che dentro il cuore dell’attore Pietro, ci fosse spazio anche per il partigiano Nello: da lì il passo per trasformare la testimonianza di Marignoli in un monologo teatrale, è stato breve, tanto che Pietro ha accolto subito la mia proposta di portare sulla scena l’esperienza di Marignoli. Quella di Nello è una storia d’amore, di guerra e fratellanza, che Benedetti condensa in un’ora di immersione nella lotta di Resistenza contro il fascismo, senza pause, senza tregua, senza sconti per nessuno: è la guerra.
Lo spettacolo ha il titolo “Drug Gojko” (compagno Gojko), rimandando subito alla fratellanza internazionale tra i popoli: Gojko Savoic era infatti il compagno d’armi, e fratello di fatto, del nostro Nello, col quale si ritroveranno dopo la guerra.
Per chi come me ha visto il monologo in teatro, ed ha conosciuto Nello Marignoli, l’emozione è fortissima. Pietro diventa Nello: non tanto perché gli somigli, ma perché fin da subito fa percepire l’incoscienza di quella generazione, poi tradita, che aveva creduto nel fascismo; Benedetti trasmette l’entusiasmo del giovane Nello, il figlio d’un gommista viterbese, che s’era arruolato in marina “perché gli piaceva”, sebbene forse avesse visto il mare poche volte. Il pubblico assiste al viaggio di un ragazzo nella dimensione mortale della guerra, che dopo tre anni tra campi di concentramento e Resistenza, lo trasformerà in uomo di pace.
Pietro ti trasmette anche la forza morale del giovane Nello, che come già fece la generazione del 1848, avrebbe dato la vita per l’Italia. I giovani del 1848 ebbero delusioni, che però furono seguite dall’Unità d’Italia, mentre i ragazzi come Nello subirono la guerra del fascismo e la distruzione di gran parte del paese, per poi avere fortunosamente una seconda chance: quella dell’8 settembre del 1943, l’anno della disfatta e della rinascita della patria; l’anno in cui per la prima volta dall’avvento del fascismo, quei giovani ebbero la possibilità di scegliere con la loro testa da che parte stare. Nello fu tra le migliaia che si schierarono dalla parte giusta al momento giusto, dando vita alla splendida pagina di storia scritta dagli uomini e dalle donne della Resistenza.
Vedendo lo spettacolo, ho spercepito il silenzio e la paura che si sentono dopo le esplosioni: quella sensazione di blocco improvviso di ciò che ti circonda, che stordisce, lasciando spazio al solo fluire dei sentimenti, della memoria, delle emozioni. Anche questo ti fa sentire Pietro Benedetti, gettando in faccia al pubblico lo scandalo e la vergogna senza tempo della guerra, il dramma dei ragazzi italiani morti ammazzati dai tedeschi, lasciati col cranio sfondato ammucchiati su di un ponte ghiacciato, con ancora le divise estive indosso. La storia di quel tedesco fucilato dai partigiani, della sua mano gelata che si intravedeva nella neve smossa.
Pietro tocca i nervi scoperti della storia d’Italia, ma fa anche commuovere dando speranza: non è forse una luce d’amore nel buio dell’odio umano, la descrizione del soldato nemico morto, con la foto dei familiari ancora stretta in mano?
Come Ungaretti si rifugiò nella parola, Pietro-Nello si salva dall’orrore della guerra grazie all’amore, alla fratellanza; grazie a quel socialismo quotidiano che gli farà ricevere in dono una bottiglietta di grappa da un vecchio slavo che, come ispirato da un vangelo, chiederà all’Italiano Pietro-Nello: “Ma noi che cosa vi abbiamo fatto?”, indicando il villaggio distrutto dai fascisti, le mura affumicate, e sul nero fumo le scritte fasciste fatte con la baionetta, che fa uscir fuori il bianco della calce. Una domanda cruciale, quella fatta dal vecchio, che racchiude in sé stessa la sofferenza dell’uomo oppresso in ogni tempo ed in ogni luogo. Anzi il “bianco della calce” potrebbe essere un sottotitolo dello spettacolo: Pietro riesce a mostrare appunto quello che c’è dietro il nero fumo della storia, e che per anni aveva coperto la verità sulle vicende dell’occupazione italiana in Jugoslavia.
Per tutta la vicenda, la speranza è sostenuta dalla grande amicizia fraterna tra il soldato Gojko e Pietro (oppure Nello): un sentimento che riesce ad andare oltre la guerra, a superare le appartenenze nazionali: insomma sul palco c’è anche il Secondo Risorgimento, c’è lo straniero Pietro-Nello, l’occupante, che combatte, per e con il popolo jugoslavo, e non per la Jugoslavia, ancora oltre la guerra, oltre le nazioni.
Se si hanno dei dubbi, delle incertezze, delle paure, Pietro-Nello riesce a cancellarle, perché appare sin dall’inizio nudo di fronte alla storia, ma con la forza di lanciare un’invettiva potente contro la menzogna e contro la guerra, armato di amore e verità, seppure per caso.
L’idea di questa pubblicazione l’ho accolta da Pietro con entusiasmo, cosciente che diffondere uno strumento per permettere ad altri di mettere in scena questo monologo rappresenti una modalità molto efficace di divulgazione della memoria storica dell’Italia e dell’Europa. Chi non sa apprenda, e chi sa non dimentichi: questo il monito lanciato dall’intero spettacolo, che poi è l’antidoto contro il neofascismo.
Un’interpretazione di successo quella di Pietro Benedetti, che diventa attore-soldato, e che nel finale ti rende orgoglioso di essere connazionale di persone come Nello, e ti fa amare Viterbo anche quando è distrutta dai bombardamenti: forse perché l’abbraccio di una madre e di un figlio che torna dalla guerra, ha la forza della ricostruzione.