Introduzione
Una persona a me molto cara, dopo aver letto in anteprima questo diario, ha sentenziato che il Dottor X, co-protagonista della vicenda, si è sempre comportato correttamente con me e che la mia è un’ossessione amorosa. A suo avviso, sarei una sorta di Adele H, l’eroina tragica di un famoso film di Truffaut. Un altro mio amico lettore, invece, non la pensa affatto così: secondo lui, il Dottor X ha scientemente giocato con i miei sentimenti, tenendomi ancorata a sé, senza concedere nulla.
Con Adele H, secondogenita dello scrittore Victor Hugo, che a metà dell’Ottocento si innamora, non ricambiata, di un ufficiale inglese, posso, al massimo, avere in comune il bisogno di riconoscimento affettivo e nulla più. L’elemento oggettivo che può legare questo scritto al potentissimo film francese è, forse, l’impostazione di base. In entrambi i casi, manca la controparte amorosa che, nelle storie di questo genere, è sempre presente e costituisce un elemento drammaturgicamente rilevante.
Venendo, invece, al giudizio severo del mio amico che ha condannato, senza appello, il Dottor X direi che i fatti, nudi e crudi, gli danno certamente ragione ma io ho sempre considerato l’oggetto del mio desiderio un uomo diverso da tutti gli altri e, per questo, degno di giustificazioni o, almeno, di attenuanti.
Per chi non avesse ancora capito, quello che segue è il racconto di una passione non consumata, di un amore condannato a spegnersi per consunzione. Il lettore più avvertito, dopo le prime pagine, protesterà: “Ma che amore e amore… Questo è solo uno scontatissimo transfert!” Chi dovesse valutare così, può sempre continuare nella lettura, prendendo questo diario come la cronaca del percorso terapeutico di una paziente che prende lucciole per lanterne.
Io, però, non mi vedo affatto così. Ho sufficienti conoscenze, teoriche e pratiche, dell’animo umano e dei suoi meandri per saper distinguere un sentimento dall’altro, riconoscere menzogne, denunciare inganni. Credo di essere abituata a fare i conti anche con le parti più buie di me e di aver imparato che forza e bellezza sono figlie della verità. Per questo scrivo: per gettar luce sugli stati d’animo e per indagare sentimenti, miei e altrui. Prima di provare a farlo, risolviamo, però, una volta per tutte la faccenda del transfert.
Come scrive Musatti nel Trattato di psicoanalisi, non c’è bisogno che un individuo intraprenda un trattamento psicologico perché si provochino in lui fatti di traslazione affettiva. In altri termini, se ogni evento d’amore è un transfert, ogni transfert altro non è che un evento d’amore.
Inoltre, per immaginare che un sentimento si stacchi da qualcuno per spostarsi sull’analista, o chi per lui, bisogna pensare i sentimenti esistenti in sé, indipendentemente dalle persone o dalle cose a cui si riferiscono. In realtà, i sentimenti sono la risonanza emotiva che una determinata persona, o cosa, producono in noi e sono così specifici da non potersi trasferire dall’uno all’altro, come vorrebbe Freud.
I sentimenti non esistono autonomamente, non sono «cose», come gli oggetti della fisiologia o della chimica, bensì sono atti intenzionali cioè «tendenti» alla persona o alla cosa che li suscita. L’incontro con il medico è terapeutico, non perché il paziente ripete regressivamente i suoi investimenti oggettuali ma perché, nel nuovo incontro, ha la possibilità di immaginare una nuova visione di sé, dell’altro, del mondo.
Questo processo si è messo in moto anche nel mio caso ma con una peculiarità: io mi sono davvero innamorata del Dottor X. Prima di lui, per necessità e per curiosità intellettuale, avevo già frequentato terapeuti di varie scuole ma l’interesse e il coinvolgimento che lui è riuscito a suscitare in me, non ha uguali. Soprattutto, con lui si è verificato un inatteso rovesciamento, salvifico, prima, mortifero, poi. A metà del percorso, ho smesso di mettere al centro me stessa – anche perché ormai stavo bene – e il Dottor X è diventato oggetto e fine di tutte le mie attenzioni ed energie.
Il Dottor X, pur essendo un (bell’) uomo a tutti gli effetti, possiede, in più, una sensibilità quasi femminea ed è (anche) di questa che mi sono innamorata. Quando un essere umano mantiene le prerogative del proprio sesso ma non annulla in sé quelle dell’altro, dà vita a qualcosa di raro e prezioso. Temo, però, che per il Dottor X amare significhi liberarsi dai confini della pelle per essere tutto ed essere niente, significhi, cioè, disincarnarsi.
Io, al contrario, ritengo che non esista atto d’amore più grande che incarnarsi per l’altro, accettare – finalmente – il proprio corpo per dare consistenza e realtà ad un incontro di immagini interiori. Tale passaggio, delicatissimo e rischioso, non si produce indiscriminatamente e in funzione di chiunque. Se mi si suggerisce di «trovarmi un uomo», la risposta è quella che Jean-Pierre Vernant attribuisce a Penelope: “Non voglio un uomo. Voglio Ulisse!”
Chi abbia la pazienza di arrivare al termine di questo cahier de doléances, converrà con me che, se non l’uomo, almeno il Dottore, dovrebbe liberarmi dal maleficio che mi lega a lui, svelando se, effettivamente, fugge l’amore fisico per inseguire l’assoluto o se, invece, questa è solo una mia fantasia per nobilitare un semplice rifiuto. Al lettore, l’ardua sentenza!
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