INTRODUZIONE
“Fu di mezzana statura e ben proporzionato; di carnagione bianca; di capelli biondi; la fronte alta, e già alquanto contratta per l’abitudine del pensare, che nella fronte e negli occhi gli si scorgeva; di aspetto, anche prima della malattia, grave e malinconico, ma animato di tanto in tanto dai moti di una vivacità giovanile; parco di parole, e nel parlare ponderato; nei modi semplice e naturale. Ne ho le sembianze espresse nel busto che ho detto dello scalpello del Tenerani: nel quale è tanta somiglianza col vero, che fissandovi sopra lo sguardo, e ripensando alla celebrità dell’Artefice che lo ha fatto, mi pare, che in questo busto egli viva ancora dopo la morte”.
È questa la descrizione di Orazio Carnevalini fatta dal fratello Angelo.
Orazio Carnevalini nasce il 2 dicembre 1802 a Viterbo da Giovanni Carnevalini e Anna Maria Tizioni e muore sempre a Viterbo il 12 novembre del 1823. È poco più che ventenne.
È grazie ad Angelo Carnevalini che sappiamo molte cose su Orazio. Angelo è sicuramente il fratello maggiore, è un avvocato e vive a Roma. Sarà responsabile della Camera di Commercio della capitale pontificia. Insomma un uomo che fa carriera in quel primo Ottocento turbolento per l’Italia e non solo. È Angelo che raccoglierà gli scritti di Orazio e pubblicherà un’opera che ne racchiude la maggior parte, Poesie del fu Orazio Carnevalini da Viterbo uscito nel 1848, parecchi anni dopo la morte del poeta.
Proviamo però a fare un ritratto completo di questo giovane autore viterbese, morto troppo presto, che ha scritto opere che lasciano intravedere una piena coscienza patriottica in anni movimentati per l’Italia e l’Europa a seguito della Restaurazione. Un animo inquieto quello di Orazio, che non trova pace né negli affetti (vivrà una straziante storia d’amore), né nella politica e nella società dell’epoca, che più di una volta definirà vile.
Riusciamo ad avere un’immagine abbastanza completa di Carnevalini grazie a due documenti, il primo è la breve biografia che fa il fratello Angelo ad introduzione della raccolta poetica che abbiamo citato; l’altro è il busto in marmo che si trova a Santa Maria Nuova a Viterbo presso la sepoltura del giovane poeta.
Partirei proprio da quest’ultima per delineare un ritratto. Il busto in marmo (o più precisamente un’erma all’antica) si trova nella parete della navata destra della chiesa viterbese con sotto una piccola lapide che racchiude le ossa del giovane Orazio, il resto del sepolcro, la lapide originale più grande venne spostata e posta all’ingresso del chiostro longobardo che si trova a fianco della chiesa. È ben riconoscibile anche a occhio nudo, visto che è l’unica ad avere nella parte alta un’apertura che conteneva il busto marmoreo.
L’opera è di Pietro Tenerani (1789-1869), scultore italiano, allievo di Thorvaldsen, tra i massimi esponenti del purismo ottocentesco.
È infatti un’opera che salta subito agli occhi per quel bianco acceso che quasi stona con la severa arte romanica che la circonda.
Tenerani era amico di Orazio e del fratello Angelo e per onorare il giovane defunto fece questo bellissimo ritratto. Si intravedono i tratti di una giovinezza che si sta trasformando in maturità, una chioma fluente e uno sguardo intenso appena corrucciato dall’affanno dei pensieri grandi. Su un’opera di Tenerani scriverà uno dei suoi primi e più apprezzati componimenti, Sulla Venere in marmo scolpita da Pietro Tenerani carrarese, in terzine dantesche di gusto ecfrastico.
La biografia fatta dal fratello Angelo invece ci aiuta a definirne meglio il percorso umano e artistico. Angelo risulta essere quasi una figura paterna per il giovane poeta ed è infatti a lui che più di una volta Orazio si rivolgerà per giudicare le proprie opere. Viene descritto all’inizio come un bambino di non grandi pregi fino a quando la sua vita cambia dopo essersi ammalato di tifo petecchiale, una malattia che si diffonde drammaticamente in Europa e in Italia tra il 1816 e il 1817. Dopo una lunga degenza, Orazio si mostra più maturo e disciplinato.
Studia presso i padri gesuiti a Viterbo, probabilmente presso il collegio che aveva sede nell’odierna via Saffi, approfondendo i classici latini e poi i grandi autori come Dante e Petrarca.
Ama l’Alfieri, come molti giovani in quegli anni, e partecipa a una rappresentazione teatrale recitando la parte di Perez nella tragedia Filippo dello stesso Alfieri, cosa che lo colpirà profondamente.
Di lì a poco farà un viaggio a Firenze e visiterà la tomba del grande poeta astigiano, come si legge in un suo sonetto, e proprio al grande Alfieri consacrerà le sue opere.
Sull’onda dell’emulazione del grande tragediografo, si dedica anche lui alla stesura di alcune tragedie, Palmira, Ippia, ossia la congiura di Armodio e Aristogitone e Pierluigi Farnese, opere di gusto alfieriano, di volta in volta sempre più incentrate sulla lotta al tiranno e sull’amor di patria. Il periodo è quello movimentato della Restaurazione e del primo Risorgimento. Il giovane Carnevalini sente forte il richiamo dei moti rivoluzionari, come molti giovani intellettuali, fino a prendere la decisione di partire anche lui per la Grecia nell’autunno del 1822, durante la guerra d’indipendenza greca contro l’impero turco. Nasconde i suoi intenti e parte per Roma per salutare il fratello Angelo. Si dirige poi verso Ancona, ma si ferma all’ultimo, non salpa, perché riceve una lettera della madre che probabilmente lo implora di non partire e se ne va a questo punto a Ferrara dallo zio.
Nel 1821, l’anno prima, un fatto aveva aggravato il suo stato di salute: facendo degli esercizi ginnici nel boschetto dei frati cappuccini cade e sbatte violentemente il petto contro un tronco. Rigetta sangue. Da quel momento non starà più bene, il suo stato di salute non si rimetterà mai completamente e infatti il 12 novembre del 1823 muore.
Nel corso della sua breve vita, oltre al sentimento di libertà, Orazio Carnevalini provò un forte amore per una ragazza di una nobile famiglia viterbese di nome Laura, o per lo meno così si intende dagli scritti e così lo riporta il fratello Angelo, anche se è ipotizzabile pensare che sia un richiamo anch’esso al Petrarca e che questo nome ne nasconda un altro.
Se ne innamorò dandole lezioni di lingua italiana e pareva dovess’essere nel suo amore felice; ma felicità e pace non erano per Lui. Ecco in poche righe come viene descritto da Angelo il carattere di Orazio, anche nel rapporto con Laura. E infatti in alcuni sonetti la rimprovererà di corrispondere poco al suo amore, di mostrargli poco affetto. Un amore tormentato, come era tormentato Orazio.
Dall’aprile del 1823 fu ammesso come socio onorario presso l’Accademia degli Ardenti di Viterbo, ma l’avvicinarsi della morte non gli permise di lasciare tracce significative.
È probabilmente in questo ultimo periodo che compone la canzone di tipo petrarchesco In onore di Santa Rosa protettrice della città di Viterbo, in cui racchiude in una sorta di preghiera le sue sofferenze e le sue speranze rivolgendosi alla figura centrale della storia viterbese, la sua santa patrona.
Un giovine di alte speranze, come viene definito nei necrologi pubblicati in varie riviste dell’epoca, e per il quale venne richiesta anche la penna di Giacomo Leopardi per scriverne l’epitaffio.
Nella storiografia leopardiana c’è un vero e proprio “caso Carnevalini” che ha dell’incredibile.
Angelo Carnevalini, dopo la morte di Orazio, inviò a Filippo Aurelio Visconti dei versi scritti dal fratello Sopra i Sepolcri affinché venissero pubblicati sulle “Effemeridi letterarie” per onorarne la memoria. Nella stessa lettera aggiunse che sperava tanto che Giacomo Leopardi scrivesse qualche “bella canzone” alla memoria del poeta scomparso. Lo stesso desiderio lo espresse a Giuseppe Melchiorri, cugino di Leopardi. A sua volta Melchiorri scrisse a Leopardi, allegando la lettera di Angelo Carnevalini, per convincere il poeta recanatese.
Leopardi rispose il 5 marzo 1824 in una famosissima lettera, celebre perché esplicitava le modalità artistiche del poeta. Infatti si legge:
“Caro Peppino. Non avete avuto il torto promettendo per me, perché avete dovuto credere che io fossi come sono tutti gli altri che fanno versi. Ma sappiate che in questa e in ogni altra cosa io sono molto dissimile e molto inferiore a tutti. E quanto ai versi, l’intendere la mia natura vi potrà servire da ora innanzi per qualunque simile occasione. Io non ho scritto in mia vita se non pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguìto altro che un’ispirazione (o frenesia) sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio sempre aspettare che mi tomi un altro momento, e tornandomi (che ordinariamente non succede se non di là a qualche mese), mi pongo allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile di terminare una poesia, benché brevissima, in meno di due o tre settimane. Questo è il mio metodo, e se l’ispirazione non mi nasce da sé, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello. Gli altri possono poetare sempre che vogliono, ma io non ho questa facoltà in nessun modo, e per quanto mi pregaste, sarebbe inutile, non perch’io non volessi compiacervi, ma perché non potrei. Molte altre volte sono stato pregato, e mi sono trovato in occasioni simili a questa, ma non ho mai fatto un mezzo verso a richiesta di chi che sia, né per qualunque circostanza si fosse. Fate accettare queste mie scuse al signor Carnevalini, ringraziandolo della opinione altrettanto falsa quanto gentile, che egli dimostra della mia capacità poetica, ed assicurandolo ch’io piango di cuore con tutti i buoni la morte del suo degno fratello, lo credo meritevolissimo di onore e di lagrime, e godo che si provvegga a celebrare e perpetuare la sua memoria. I miei versi farebbero piuttosto l’effetto contrario, ma qualunque giudizio egli per sua cortesia voglia fame, il certo è che chiedere versi a una natura difficile e infeconda come la mia, è lo stesso che chiedermi un vescovato; questo non posso dare, e quelli non so comporre se non per caso. Pregatelo bensì di conservarmi la sua amicizia, la quale io stimo e me ne tengo onorato, avendo presentissima alla memoria l’indole nobile e generosa, e l’ingegno pronto, acuto ed alto, che io scopersi e conobbi in lui nel pochissimo tempo che ebbi il piacere di trovarmi seco. […]”.
Leopardi poi si assicurò attraverso Melchiorri che il rifiuto non avesse offeso Angelo Carnevalini, che rimase invece colpito dalla cortesia del poeta. Chi fece una pessima figura in questo contesto fu invece Filippo Aurelio Visconti che, senza consultare Leopardi, aveva assicurato la stesura di un’opera in memoria di Orazio, e dovette porgere le sue scuse. Leopardi da parte sua commentava così: “Ho riso del caso di Visconti con Carnevalini e veramente è da riderne”.
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