PREFAZIONE DI
LORENZO ABBATE
Il recupero di un autore e della sua produzione non è mai un atto neutro, implica ovviamente la volontà di rivitalizzare un messaggio, valorizzarlo, rileggerlo con occhi moderni e restituirlo alla luce della coscienza collettiva. Nel caso di Orazio Carnevalini, figura a dir poco sconosciuta, questo tentativo è particolarmente lodevole in quanto la sua produzione va a colmare una lacuna vera e propria. Sappiamo ben poco della produzione poetica a Viterbo nell’Ottocento, essendo di fatto mancate figure di spicco che potessero fungere da traino per approfondimenti mirati. Conosciamo in maniera piuttosto episodica e non complessiva l’ambito culturale del periodo, dominato da quell’istituzione complessa e benemerita che fu l’Accademia degli Ardenti, ma anche in questo caso la nostra conoscenza non va oltre la semplice constatazione di alcuni dati e la riproposizione di ormai esauste voci non sempre suffragate della documentazione relativa.
Lo studio di Paolo Tassoni che qui si presenta ha – a mio dire – diversi pregi, il primo dei quali, senza dubbio, è quello di non essersi fermato a una sconcertante lacuna documentaria. Di Carnevalini poco si sapeva e poco continua a sapersi tutt’ora. L’archivio dell’autore, certamente preso in carico dal fratello avvocato, è irrimediabilmente disperso. La Biblioteca Comunale degli Ardenti, sede naturale di materiali riconducibile a Carnevalini, ne è pressoché priva. Anche cercando nelle più complete banche dati non si ricava nulla: basti pensare che sul portale Manus l’unica voce riconducibile a Carnevalini è quella relativa alla ben nota lettera di Melchiorri a Giacomo Leopardi. Il secondo pregio risiede invece nell’accuratezza della rilettura proposta: non si tratta infatti di una semplice ristampa di poesie, ma di uno studio complessivo, che riesce a fornirci un valido strumento di accesso e comprensione al, seppur limitato, corpus poetico di Carnevalini.
Come bisogna procedere quindi in caso di un «recupero» di una voce poetica dimenticata? Le risposte potrebbero essere delle più varie, e i tipi di approccio i più disparati. Tassoni ha scelto la via più lineare, e a mio credere, nel caso specifico, la migliore possibile: dando modo a una pluralità di soggetti di rileggerne le produzioni tramite un apparato di note succinto e una introduzione breve e precisa.
Non spetta di certo a me giudicare il valore poetico dell’opera di Carnevalini, e non credo che sia il caso di scomodare sistemi critici ben definiti come quello di Croce: il risultato sarebbe probabilmente impietoso da un punto di vista prettamente estetico. Ma lo stesso Croce ci ha spiegato brillantemente come la poesia possa avere varie gradazioni di valore, rivestire una importanza generazionale e di formazione, e soprattutto essere utile ai moderni come documento vivo e vitale della cultura del periodo a cui ci approcciamo.
Sia detto comunque e a scanso di equivoci, non ci troviamo davanti a un capolavoro della letteratura italiana, e né io, né tantomeno il curatore del volume, si ha intenzione di gridare e strombazzare un nuovo caso letterario. Nonostante ciò però le poesie di Carnevalini hanno un pregio non dispregevole: benché composte da un giovanissimo autore, isolato in una provincia notoriamente al di fuori dei grandi circuiti letterari, e per di più impossibilitato ad avere contatti diretti con il mondo dell’alta cultura, ne è pienamente partecipe. Carnevalini è infatti un cultore pieno di Alfieri, e quindi inserito a pieno titolo in quella sequela di epigoni e giovani «vittime» della lettura di quelle opere così dirompenti che fomenteranno non poco lo spirito risorgimentale già fervente negli animi dei giovani italiani. Il lettore colto non potrà dimenticare quanto l’alfierismo ha dato alla letteratura italiana e soprattutto alla formazione letteraria di diverse generazioni: Foscolo, Leopardi, Manzoni, tutti sono debitori in diversa misura a quella lezione di liberta, filosofia e letteratura di cui l’astigiano è stato portatore. Di conseguenza rileggendo queste poesie ci ritroviamo immersi in una sequenza di suggestioni: la poesia amorosa, ma anche i più animosi ideali politici sono rappresentati, fornendoci così la chiave per ricostruire quello che deve essere stato il complesso mondo interiore di uno sfortunato e giovane viterbese.
L’intertestualità è senza dubbio particolarmente forte in questi sonetti, e ci aiuta a capire il meccanismo alla base delle composizioni di Carnevalini: non una poesia originale al tutto, ma una sorta di collage del tutto personale che dimostra senza dubbio cultura e applicazione. Ne sia un esempio lampante il primo sonetto, in cui il modello è chiaramente quello del Triumphus Cupidinis di Petrarca, variamente rimodellato, magari sotto l’influenza anche di altri autori quale appunto il Dante citato da Tassoni. Il petrarchesco “Sov’un carro di foco un garzon crudo / con arco in man e saetta a fianchi” viene dilatato da Carnevalini e in qualche modo aggiornato linguisticamente pur mantenendo tutti gli elementi dell’originale. Siamo davanti a un classico meccanismo di imitatio dove il modello viene sfruttato per esprimere i propri sentimenti, ma pur sempre seguendo la bussola di un autorevolissimo e imprescindibile modello. In questo caso sarebbe più complesso pensare che Carnevalini si sia servito di altre fonti intermedie, quali l’Adone di Marino, alcuni versi di Vincenzo Monti o anche Angelo Poliziano, che pure ricorrono alla figura degli strali e dell’arco: in critica come in filologia vige sempre la regola dell’economicità delle ipotesi, e di conseguenza sarà molto più semplice ipotizzare che il quadro complessivo e le modalità espressive siano mutuate da Petrarca piuttosto che frammentare le scelte espressive in una miriade di rivoli minori.
Il concetto dell’intertestualità potrebbe però apparire a un lettore moderno come una sorta di plagio, il che è quanto di più sbagliato si possa credere approcciandosi alla poesia antica. Basti pensare a quale era la situazione linguistica di partenza per uno scrittore viterbese del primissimo Ottocento (a puro titolo di esempio rimando a Il Lazio, in Dialetti italiani. Storia struttura uso, a c. di M. Cortelazzo, C. Marcato, N. De Blasi, G. P. Clivio, Torino, Utet, 2002). Appropriarsi della lingua poetica, che si distaccava, e di molto, da quella d’uso era operazione laboriosa, che passava giocoforza attraverso l’attento studio e la memorizzazione dei “classici”. Esprimersi in quella splendida e immaginifica lingua della poesia comportava quindi un obbligato step imitativo, che in Carnevalini appare alle volte ingenuo a causa della sua precocità di produzione, ma che sicuramente sarebbe potuto evolvere diversamente se vi fosse stato più tempo. Allo stesso modo però questo non deve indurci a giudicare impietosamente la voce poetica di Carnevalini: immaginare il mondo, raccontarlo e raccontarsi attraverso topoi letterari e situazioni altrui era pratica assolutamente comune nella poesia dell’Ottocento, di cui Carnevalini, a ben vedere, è una voce pienamente degna di essere riletta nell’ambito, ci auguriamo, di una riscoperta più ampia delle voci poetiche viterbesi.
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