Da qualche settimana ci ha lasciato Luciano Marziano, spettatore affezionato delle nostre iniziative ma anche studioso e autore raffinato, nonché amico impagabile della casa editrice e della Banda del Racconto.
Abbiamo chiesto a sua nipote Vania Granata un breve ricordo personale da far circolare fra i nostri lettori. Eccol
Per Luciano Marziano
di Vania Granata
Come è strano parlare di un intellettuale, di un uomo capace di muovere energie e rivoluzionare culturalmente i luoghi, fisici ed istituzionali, per cui è passato.
Luciano Marziano era un siciliano di Comiso, classe 1929, passato per Roma ed arrivato infine a Tarquinia, sua ultima ed amata patria di elezione. Nella mia testa e nel mio personale ricordo Luciano era un fine pensatore, un estimatore di dame, un uomo di eleganza d'altri tempi celato, sornione e beffardo, dietro ai suoi occhiali. Un marziano solitario e mondano dedito a filare trame di cultura e di arte... volato via per chissà quali altre avventure in altri pianeti seguendo il filo inesauribile della sua sete di sapere e della sua curiosità.
Così mi piace pensarlo.
Qualche sera fa mi sono casualmente trovata tra le mani una sua foto – esiste un caso? una fortuita accidentalità? Mi chiedo – che lo ritrae a brindare insieme a mio padre in una serata d'altri tempi insieme a una brigata di giovani vecchi amici. L'avevo messa da parte per portargliela... ma, che curioso, l'occhio mi ci era finito sopra proprio il giorno, quel 24 marzo 2016, in cui ha deciso di andarsene.
Beh, il fatto è che Luciano Marziano era mio zio, e posso raccontare solo di come mi sento onorata di averlo ritrovato e conosciuto nuovamente, con un altro tipo di relazione non più, o non solo, parentale, in questo ultimo suo anno di vita e di aver potuto condividere con lui un piccolo spazio. Uno zio che le vicissitudini delle nostre complicate esistenze mi avevano fatto perdere di vista e quindi ritrovare... una svista della vita.
Ci siamo persi per circa venti anni, ma l'ho incontrato di nuovo – e questo non è affatto casuale – all'inaugurazione di una mostra alla GNAM; ho riconosciuto il suo sguardo e i suoi occhiali, gli stessi di venti anni fa. Lui non mi ha riconosciuto in quella occasione.
Dunque, ricapitolando, posso dire che sino a quel momento ho ricordi che risalgono alla mia infanzia, tuttalpiù alla mia adolescenza, quando lui e sua moglie, zia Franca, ci venivano a trovare...
Lo ricordo mentre legge un giornale o fuma la pipa; lo ricordo, buffo, nelle passeggiate in bicicletta con me e mia sorella, con le mollette a reggere il fondo dei pantaloni a zampa d'elefante per non farli intrappolare nella corsa delle ruote della bici. E sono ricordi feriali, quotidiani, di domeniche a pranzo al mare. Non voglio parlare della sua nota attività critica, non solamente almeno, perché ricordo anche e soprattutto l'uomo che era.
Posso dire ciò che mi ha profondamente colpito oggi come essere umano e come intellettuale. Di come mi ha spronato a lavorare nel mondo dell'arte, di come mi ha consigliato saggiamente e di come mi sono sentita fiera quando, leggendo un mio piccolo saggio, mi ha fatto dei complimenti. Era un uomo molto generoso, e attento.
Posso raccontare la fibrillante felicità che gli leggevo negli occhi quando mi doveva presentare gli artisti e gli autori della manifestazione Tarquinia ‘900. Una comunità allo specchio dei racconti, l'ultima volta che l'ho visto. Di come quel giorno avesse costretto Paolo, il suo assistente e angelo custode, a traghettarmi in lungo e in largo nelle anse e nelle vie di quella Tarquinia mentre lui riposava prima dell'inaugurazione.
Posso raccontare della sua capacità affabulativa tutta siciliana con la quale mi aveva intrattenuto ed affascinato sulle reali origini della cittadella, Corneto, nome e storia sul quale si era dilungato durante il bellissimo pranzo insieme. E ancora, le sue divagazioni mentre tornavamo a casa sulla Tarquinia contemporanea dove l'architettura modernista si ricavava prepotentemente un posto accanto, e a disdetta, della metropoli etrusca e archeologica, come se la città ribadisse con forza che non era una città morta o classificabile solo con una vetusta etichettatura.
Posso dire di averlo visto felice, come qualcuno che ha ormai trovato il suo posto e dunque il senso ultimo della propria esistenza, in quella giornata indimenticabile insieme di cui ricordo la luce dorata decuplicata dalla specchiera del mare e l'energia vivissima, nonostante fosse ottobre, lì a Tarquinia. Ho ancora una foto ricordo impressa nella mia memoria quando prima di uscire per la presentazione e la proiezione del video, vanesio come un bambino nel suo vestito elegante mi chiede: – E come sto, sto bene? – Sì zio, stai benissimo – ed era vero.
Ecco, non dirò molto altro, ma quella sua stessa energia culturale – un'inarrestabile voglia di sapere che magicamente sopravvive alla morte – aleggiava, qualche mese dopo, nella sala dove tutti i suoi amici si erano riuniti per incontrarlo e salutarlo un'ultima volta dopo la sua mancanza: una sala gremita di artisti, intellettuali, gente comune; uno scacco alla morte, laico e potente. Questo è proprio il senso che mi ha lasciato. Ci auguriamo vivamente non si disperda in entropia. |