PAESAGGI E FOTOGRAMMI
Viterbo e la Tuscia in pellicola
Di Antonello Ricci
Ma che ci azzeccherà mai il chiassoso brindisi alla peste di Amedeo Nazzari in elegante costume del ’500, con un Massimo Girotti (bello!) ginnico e smutandato, versione Tarzan delle scimmie, a caccia di cervi nei boschi intorno a Vico?
Per quale incantesimo possiamo poi ammirare questi due stessi divi in tenuta da piloti-aviatori anni ’40, mentre gironzolano per hangar e piste dell’aeroporto militare di Viterbo?
Ci aiuteranno a far luce su certe magie del cinema un tragico ricordo di vita e un tenero lapsus dell’indimenticato poeta popolare viterbese Alfio Pannega?
Il cinema: «squallida tela» (Pirandello dixit) su cui tremano evanescenti larve-personaggi, fantasmi e vampiri di vita rubata; sortilegio per il quale anche a te potrebbe capitare un giorno di riconoscere Viterbo a Venezia, la Grecia sotto le bombe a Ferento, le leggendarie selve di Kindaor nelle boscaglie dei Cimini. E incontrare Otello, folle di gelosia, sulla scalinata di palazzo dei Papi. O l’arrogante Neri dei Chiaramantesi a spasso per San Pellegrino. O il machiavellico frate Totò-Timoteo e Dario Argento, a casa tua, in via Pietra del pesce...
Ricordo, qualche anno fa, una proiezione in piazza dell’Othello di Orson Welles. Ricordo quell’ovazione in coro dei viterbesi, un po’ stupiti un po’ compiaciuti; ricordo le risate, i commenti ad alta voce, le strizzate d’occhio: fu proprio quando, di là dagli eleganti archi gotici della loggia papale (rifatti in studio), l’obiettivo inquadra il mare. Eppure, a rigor di finzione, non c’era proprio nulla di cui meravigliarsi: quella era Cipro, non Viterbo. Quell’improbabile mare non poteva certo dirsi inatteso. Eppure.
Ha questa forza magica, il cinema (o almeno l’aveva, in quel secondo dopoguerra). Qualunque paesaggio, consegnato a una sintassi di fotogrammi, non sarà più lo stesso, quello di prima: si lascerà conoscere per vero, sì, da chi l’abbia battuto, frequentato, visitato durante la sua precedente vita (quella reale); conserverà, però, una non so che aura di riserbo, un senso di straniamento a fiuto, quasi fosse rinato: nelle inquadrature, nella luce, nelle vicende della pellicola su cui s’è ritrovato impresso. Ai bordi, d’ora in poi, di qualche remota plaga della nostra memoria di spettatori. Visione sospesa, sconfinante. Non importa, infatti, che il montaggio possa aver fatto convivere, nel mondo dell’opera, in uno stesso spazio scenico, Safi – Marocco – e Viterbo – Italia – violando così ogni principio di realtà, di verosimiglianza, di non contraddizione spaziale.
E ciò che in un film vale per i luoghi, non potrà che valere per i personaggi. All’arte del cinematografo tutto è concesso: creature fittizie proiettate fuori dal piatto universo della tela, dal rassicurante buio della sala di proiezione, si trovano a vagare, fantasmatiche e spaesate, nella stupefacente luce d’un mondo in-carne-e-ossa: dove, lungo paesaggi mezzo veri mezzo sognati, ripetono in eterno quel loro certo gesto (qui un riferimento d’obbligo è alla Rosa purpurea del Cairo di Woody Allen, 1985).
Non stupisca allora, il lettore-spettatore, per taluni scherzi che l’immaginazione gioca: un giorno infatti – mentre, tranquillo, passeggia per selve imbalsamate, verso Vico – potrebbe occorrergli d’incontrare Chiara, che traversa il bosco recandosi da Francesco. Così come, sulla provinciale per Tuscania, crederà a volte, d’aver appena incrociato Otello-Orson Welles, vestito di tutto punto (farsetto di cuoio, calzamaglia nera, lungo mantello bianco), sfrecciante in auto in direzione opposta (e questo, veramente, è un doppio salto mortale: chi correva verso Viterbo, a cena: l’attore o il personaggio?).