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ABBIAMO FATTO RUMORE
A cura di Paola Maruzzi, Diana Ghaleb, Fabrizia Lucidi


Entro in una stanza
Tommaso Giartosio

Entro in una stanza e mi accorgo che è un’aula scolastica perché ci sono in giro zaini cuffiette quaderni. Forse anche qualche nome sui muri, un cuore cancellato e rifatto dov’era e com’era, una formula di mate scribacchiata in piccolo, la presa della luce dove qualcuno ha messo in carica il cellulare. Ma quando ci entro io l’aula è solo una stanza, il laboratorio di poesia ormai è finito, e io non so cosa avete fatto esattamente. Non so cos’è per voi un laboratorio di poesia.
Non so cos’è per voi una poesia.
So che avete cominciato leggendo delle poesie di poeti famosi. La prof Maruzzi mi ha mandato una lista, così ho potuto anch’io leggerle o rileggerle – mentre leggevo anche le vostre, di poesie. Ma ho subito capito che così non funzionava, almeno per il lettore che sono io. Ho deciso che Saba d’Annunzio Bosso Szymborska e compagnia vi hanno dato semplicemente una spinta. Importantissima, sì, ma poi quello che avete scritto viene da voi: il sasso delle loro poesie è caduto nel pozzo che è ciascuno di voi. L’eco non ci sarebbe stata senza quel sasso, ma il gioco di rintocchi dipende soprattutto dalla forma della singola camera di risonanza, forma diversa per ciascuno di voi, a seconda di quanto profonda la caduta, quanto lisce o ruvide le pareti, quanti rimbalzi su spunzoni e rupi, quanta acqua sul fondo. E ci sono anche pozzi che hanno sul fondo un liquido così denso che la poesia cadendo ci sguscia dentro senza neppure uno schiocco: questi pozzi non restituiscono alcun suono, tanto che può sembrare che non sia accaduto niente, ma in realtà la poesia udita si conserva laggiù protetta dal suo involucro
morbido, per sempre.

Voi comunque non siete pozzi di questo tipo. Avete fatto rumore.
Parlavate proprio di questo quando sono entrato, di Cola Pesce e di cosa vuol dire scendere in profondità, in un pozzo o in un mare. E dicevate cose che mi hanno lasciato di stucco. Loris diceva: scendo laggiù per… voltarmi, guardare in alto e vedere il sole. Lorenzo diceva che il mare in realtà è vuoto. Come, vuoto? Sì, vuoto. Michael voleva scoprire cos’è il profondo, ma Matteo obiettava che forse non è il fondamento, la base di tutto, la verità, ma proprio il contrario: è il dubbio; sì, il dubbio non è aspettare qualcos’altro; è già qualcosa, è una cosa profonda. Francesco aggiungeva che in effetti, cercare di conoscere è una forma di pazzia: ma una pazzia buona. E io pensavo che quando a scuola ti dicono che una poesia è profonda, di solito non aggiungono che è una forma di conoscenza rovesciata, o vuota, o incerta, o folle. E invece avete ragione, lo è.
Ma intanto eravate andati avanti a parlare d’altro, perché il fatto che la poesia sia una cosa un po’ complicata, paradossale, controintuitiva, non significa che debba per forza usare parole difficili (come “paradossale” e “controintuitiva”). A volte è più semplice di quanto crediamo. A volte è proprio la sua semplicità a essere pazzesca. Luis ha detto: la testa è desta. E tutti hanno dovuto dargli ragione. Non era un gioco di parole, era la verità, anzi era vero proprio perché era un gioco di parole. Alex S. ha detto: nel silenzio pensiamo a come useremo il remo. E tutti hanno capito che stava parlando di poesia. Ilie ha detto: siamo persone differenti e per questo possiamo tutti volerci bene, il nostro sangue è diverso come l’universo. E tutti hanno silenziosamente applaudito, perché aveva detto una cosa che aveva senso solo grazie alla poesia, a un verso. Anche Federico ha usato la rima per girare il discorso nella direzione che voleva lui: non voleva parlare di odio o di botte, quindi ha usato dei suoni da canzoncina, che sono la sua arma di difesa:

al piccolo Fede direi di essere meno buono
contro quei bulli di cui non mi affeziono.


Anche altri, come Federico, volevano mettersi a immaginare un incontro con il se stesso di qualche anno prima, e veniva spontaneo parlargli in romanaccio (Emanuele è scoppiato: mo però fatte abbraccià, quanto sei bello!), ma a questo punto Cristiano si è alzato in piedi e ha dichiarato che in poesia si può anche dire che se magna?, e gli avete tutti dato ragione. Ho idea che aveste fame.
Sono andato a mangiare anch’io e quando sono rientrato mi è sembrato che foste passati a parlare di ragazze. Ammetto che mi sentivo un po’ di troppo. Andrea confessava che certi suoi sentimenti erano stati spenti dal nulla, e questo mi ha davvero gelato: già è dura quando vieni sconfitto da una forza schiacciante; venire sconfitti dal nulla è peggio, è più ingiusto. Loris e Michael per fortuna mi hanno distratto con dei nuovi esercizi di profondità: uno diceva che la sua ragazza era una macchia pulita, l’altro le diceva: vorrei essere un veliero che affonda nell’abisso dei tuoi occhi. L’amore, ho pensato, può mai essere una cosa che sporca, una cosa che dà la morte? Ma mentre mi ponevo queste domande, già sentivo che erano domande stupide. Certo che l’amore fa tutto questo! Una volta ho letto un libro di poesie che si intitolava: L’amore è un cane che viene dall’inferno.
Mi sono chiesto allora chi eravate.
Perché a essere onesto, non mi sembravate più dei semplici ragazzi. La verità è che uno, quando fa poesia, diventa un eroe del sentire, del capire. Si avventura in luoghi che voi umani… (eccetera). E al tempo stesso, non so come, rimane un ragazzo.
Mirko ha scritto: sono l’anonimo rivelato sotto forma di ragazzo. Quindi un ragazzo anonimo. Ma nel mezzo c’era una rivelazione.
Bruk: definirei me stesso come l’acqua. Una cosa senza forma, dice lui. Ma irrinunciabile, dico io. Senza l’acqua si muore.

Alex B.: ecco chi sono, una grande nullità nata per essere tale. E io ho pensato: non ci riuscite proprio a distruggervi! La poesia è un’arma potente anche quando la puntate contro voi stessi, ma… non c’è niente da fare: un po’ di quel potere vi rimane addosso! Una nullità nata per essere tale… ma comunque una grande nullità. E non è poco. Se sei grande, da nullità a tuttità basta un passo.
Questi sono tutti frammenti, ma c’è una poesia (anzi due: ma la seconda ve la dico dopo) che mi è rimasta addosso tutta intera. È quella di Andrea:

Non mi arrabbio facilmente
ma sicuramente lo faccio volontariamente.
Quel sentimento scuro non chiede permesso
quando arriva
fa diventare le mie giornate come un muro
e non parlo con nessuno
e non perdono facilmente.

La rabbia è il contrario della mente, perché se ragioni non ti arrabbi. Andrea ha riempito i suoi versi di mente, credo per tenere la rabbia sotto controllo, ridurla a un sentimento. (Gli avverbi in -mente vengono davvero dalla parola latina per dire “mente”.) Ma dietro, gli premeva nella testa tutta un’altra serie di suoni, anzi di rumori, il rumore della rabbia: sicuro (sicura-mente), scuro, muro, nessuno. U-R-O. E alla fine Andrea ha dovuto accettare un compromesso: dare il controllo alla mente, sì, lasciarle chiudere anche l’ultimo verso; ma questa è una mente che conserva dentro di sé la rabbia. Infatti non perdona.
La poesia queste cose le dice. La poesia fotografa, non abbellisce. Questa cosa l’ha capita Cristiano, quando scrive di essere un vetro che va in pezzi, e riesce a ricomporsi tutto tranne per una piccola scheggia che non si ritrova.
L’ha capita Ilie, che dice: non sarò mai debole come il sole riflesso, e subito senti che lui quel barbaglio troppo pallido lo conosce bene, l’ha studiato a lungo, ne ha tenuto un brivido. Si vede che gli serviva.
L’ha capita Caleb, che scrive un verso bellissimo: di farcela ne sono incerto, rovesciando come un calzino la frase solita (“ne sono certo”); e poi prosegue con un altro abuso linguistico potentissimo: mi sento inutile se non ce la facessi (invece di “mi sentirei inutile”). Bravo Caleb che scrivi storcendo le parole.
L’ha capita anche Alex B.: lui si rappresenta come un bambino fragile (come un vetro) che, per paura di rompersi da solo, si vincola. Cioè si lega. Vincolarsi è un verbo strano, si usa per gli obblighi davanti alla legge ma anche per i legami d’affetto, e comunque ci senti sempre l’irrequietezza di qualcuno che si divincola.
La poesia, ho pensato alla fine, per voi è questa cosa qui. Un luogo di verità anche quando si riempie di dubbi, uno spazio di chiarezza anche quando è buia. E questo non l’ho deciso io, l’avete scoperto voi – quelli che ho citato, ma anche Arianna, Cristian, Flavio, Marco, Rosario, Tommaso. Nicolò ha scritto:


mia madre è la poesia
che non sarò mai in grado di scrivere
eppure tutto quello che scrivo
è una poesia per mia madre


– e la poesia è proprio questa impresa impossibile che è compiuta proprio quando pensi di aver fallito. È la stanza in cui entri quando hai buttato via la chiave. Il merito è vostro. Sono uscito dalla vostra stanza. Grazie.