Nazzareno Battaglini, bolsenese, classe 1962, discende da una famiglia di ortolani. Si forma come perito agrario e, a partire dagli anni ‘80, lavora come tecnico della Coldiretti, finendo con l’assumere ruoli dirigenziali. Dopo un decennio di impiego, in concomitanza con alcuni grandi cambiamenti che investono il settore (l’avvento dell’informatica e di politiche agricole improntate al meccanismo dei “contributi”), viene a trovarsi in disaccordo con le linee guida dettate dall’ente per il quale opera. Prende una decisione drastica: lascia tutto e torna a coltivare la terra. E lo fa seguendo l’esempio e l’ammonimento consegnatigli dal padre: «Mio padre in punto di morte mi disse di lasciare pulito dietro di noi.» Inizia a coltivare quello che chiama un «orto al naturale.»
Il destino di Nazzareno Battaglini sembra essere inscritto nel suo nome. Nazzareno è un po’ profeta, un po’ guerriero. Del primo ha la capacità di persuasione, l’abilità nel comunicare, di prefigurare scenari, di lanciare ammonizioni e avvertimenti. Ma anche di indicare la strada della possibile salvezza. Del secondo il coraggio e l’indomita energia che mette al servizio del raggiungimento del proprio obiettivo. Che è quello di innescare una rivoluzione, detto senza mezzi termini. Riscattare l’agricoltura dai processi di natura industriale. Liberarla dalla chimica. Creare una coscienza diffusa in merito all’importanza e alla fragilità del suolo agricolo. Ripristinare il senso ed il valore del rispetto della stagionalità. Educare a consumi consapevoli e responsabili. Argomenti che trovano in Nazzareno un fiero interprete e alfiere, e che da anni sono al centro dell’azione e delle politiche tanto di singoli attivisti quanto di movimenti capaci di orientare l’opinione pubblica, di plasmare stili di vita e di incidere, in qualche maniera e misura, sulle politiche di settore.
Quella di Nazzareno Battaglini è la storia di un neorurale, e somiglia molto al destino di una gran quantità di persone (giovani, spesso non giovanissime) tornate all’agricoltura dopo una qualche parentesi di lavoro nel settore terziario o nell’industria. Il contesto più ampio e pertinente entro il quale vanno collocate la biografia e le convinzioni di Nazzareno intorno all’agricoltura è quello rappresentato dal post-agricolo. Derivata dal campo degli studi antropologici sul contemporaneo, questa nozione di recente conio comprende fattispecie molto diversificate che «in comune avrebbero il riferimento privilegiato al paesaggio agrario come contesto economico, tecnologico, sociale, estetico e morale.» Essa pone in evidenza la nuova e caleidoscopica vitalità del settore produttivo primario, «il suo rinascere come fonte di immaginario morale, di orgoglio di mestiere, di appartenenza identitaria al territorio; il suo costituirsi come formidabile arena mondiale, nazionale, locale di conflitti sociali e normativi (si pensi al land grabbing, alla gentrificazione, alla questione dei semi e alle procedure di autentificazione); il suo farsi contenitore slargato di narrative, di rappresentazioni e pratiche di cui è esempio strabordante la crescita in presenza e in densità simbolica del cibo, ingrediente base di nuovi fenomeni sociali totali (EXPO 2015 docet).» La ricerca sul campo ci mostra come quella di Nazzareno non sia la tanto bizzarra quanto episodica storia di uno strampalato agricoltore di provincia intento in una donchisciottesca lotta contro i mulini a vento, bensì la battaglia di una più vasta guerra combattuta su scenari vastissimi, e che ormai è sotto gli occhi di tutti, «tra l’egemonia delle multinazionali del cibo contemporaneo – protese a definire insieme al gusto contemporaneo gli scenari mondiali del paesaggio, della ricchezza, della povertà e della salute – e un attivismo etico-politico di resistenza e creatività che cerca di aprirsi una strada nella distribuzione (es. equosolidale) ma opera soprattutto a livello locale dimostrando inedite potenzialità di mobilitazione e penetrazione.» Questa capacità penetrativa, di far presa all’interno delle comunità, nel caso di Nazzareno è espressa in maniera esemplare da alcune storie contenute in questo libro. Come l’approdo al mercato settimanale di Vetralla o a quello di Montepulciano e la conquista delle relative piazze. Ed ho avuto modo di constatarla io stesso, di persona, andando ad osservare un martedì mattina al mercato di Vetralla quello che accade attorno al suo banco di ortaggi. Nel corso della sommaria ricognizione ho potuto osservare l’assieparsi di una vera e propria folla di acquirenti (una sorta di piccola comunità temporanea, di scopo) fatta di persone (a occhio e croce di tutte le età, di diversa estrazione ed equamente divise per genere) intente a riempire sporte di carote, meloni, pomodori. Sotto gli occhi attoniti, e un poco avviliti, del gestore del banco concorrente poco distante. Evidentemente Nazzareno, il prodotto che egli offre – non solo quello che cresce in terra, ma quello che esce dalle sue labbra – intercetta e offre risposte soddisfacenti a bisogni, dubbi, paure, sensibilità diffuse in merito a questioni quali la salute, l’alimentazione, il benessere individuale e quello del pianeta, la minaccia costituita dall’inquinamento e dalla desertificazione.
Ma i motivi di interesse nei confronti di questo libro e delle storie che esso raccoglie vanno ben oltre quanto appena esposto. Il volume offre al lettore un ricco repertorio di questioni di interesse antropologico. Parla del saper fare di derivazione tradizionale, di saperi incorporati, di conoscenze etnobotaniche (che dialogano con – e allignano su – saperi esperti), di cultura materiale, di ergologia, di retroinnovazioni, della concezione e della percezione della fatica del lavoro, di codici estetici in base ai quali esprimere un giudizio sulla qualità degli ortaggi. Nazzareno diventa in questo modo la porta di accesso a una idea di agricoltura che porta i segni di una connotazione locale, di una tradizione.
Questo libro è il frutto dell’applicazione della filiera di trattamento delle fonti che Banda del racconto ha sperimentato e via via affinato nel corso degli anni. Punto di partenza sono le storie narrate da Nazzareno Battaglini. Alcune di esse sono state registrate nel corso di lezioni tenute a studenti di vari gradi d’istruzione, da quelli della scuola primaria agli universitari, come nel caso degli apprendisti narratori di comunità del master di I livello attivo presso l’Università degli studi della Tuscia di Viterbo. Altre parti del testo scaturiscono dalla traslitterazione di interviste. Queste ultime sono state realizzate da Davide Ghaleb nei locali dell’omonima casa editrice. La trascrizione, per la cui realizzazione ci si è attenuti a norme convenzionali applicate ad altri corpus pubblicati in questa stessa collana, è opera di Elia Ghaleb sotto la supervisione di Gabriella Norcia, la quale ha anche curato il montaggio narrativo delle fonti. Questo significa che sono stati operati dei tagli e delle cuciture rispetto al fluire dei discorsi registrati. Tutto ciò facendo attenzione a mai determinare un rivolgimento del senso di quanto detto da Nazzareno. Il taglio di alcuni passaggi, o l’assemblaggio di alcuni brani in un ordine non corrispondente alla sequenza con la quale essi sono stati registrati, è solo apparentemente un tradimento della fonte. Perché – e in questo risiede la cifra del lavoro critico e interpretativo che contraddistingue i volumi pubblicati in questa collana – porre in tensione e creare dei corti circuiti tra i segmenti della narrazione per come è stata consegnata ha consentito di guadagnare una comprensione più profonda del pensiero di Nazzareno, di accedere ad un livello di verità non immediatamente accessibile.
La fiaba di Cardellino, ad esempio, compare in diversi capitoli del libro. Avrebbe avuto senso, in considerazione della necessità di economizzare gli spazi e di rendere scorrevole la lettura dell’opera, emendarla per evitare inutili ridondanze. Si è scelto di perseguire un’altra strada. Si è optato per riportarla ogniqualvolta essa è venuta a cadenza perché costituisce un elemento forte e ricorrente delle performance narrative di Nazzareno. Perché una cosa appare chiara, e va sottolineata. Nazzareno, sia nelle interviste, ma soprattutto nelle sue lezioni, espone la sua visione dell’agricoltura, che poi è una visione del mondo, come atto riflesso, con consapevolezza. Il suo è un linguaggio levigato. Il parto di una poetica. Nazzareno esprime padronanza non soltanto rispetto ai contenuti di cui parla, ma anche al modo in cui lo fa. In questo senso la ripetizione corrisponde ad una precisa strategia retorica. Non c’è nulla di naif nel modo in cui Nazzareno si rapporta ai suoi interlocutori e nel suo modo di raccontare. La sua è una narrazione, sapientemente costruita e ripetutamente sperimentata, fatta di blocchi, di segmenti che di volta in volta vengono ricombinati in sequenza tra loro. Il fatto che la fiaba di Cardellino (che poi è anche il nome dell’azienda fondata da Nazzareno) venga riproposta in maniera pressoché regolare in ogni occasione rende la stessa il vero e proprio mito di fondazione del modo di vita e di lavoro di cui Nazzareno è artefice.
Marco D'Aureli
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