Il volume di Andrea Natali si propone di conservare memoria di alcune delle testimonianze materiali più derelitte della modernità: quegli ‘edifici finalizzati’, quindi riservati ad un uso specifico e ben determinato (come i forni, i gallinai o le colombaie, i ripari dei guardiani dei boschi e dei pascoli, ma anche i fontanili, i lavatoi e via dicendo), che, pur realizzati in massima parte nella prima metà del Novecento, sono oggi in stato di abbandono e di progressivo degrado. Ciò per il fatto di aver perso la loro funzione, di essere collocati generalmente in campagna, isolati e quindi, molte volte, lontani dai percorsi stradali, ed anche di ricadere sotto norme urbanistiche o anche ‘programmi di sviluppo rurale’ che, nella loro genericità e pochezza, li considerano solo come volumi e superfici da recuperare, tramite demolizione, a favore delle nuove costruzioni o dell’ampliamento di quelle esistenti.
Il fatto di essere edifici decisamente ‘finalizzati’ rende ardua la loro destinazione ad altri usi; sono sì restaurabili ma difficilmente adattabili a nuove funzioni come le esigenze della buona ‘conservazione integrata’ vorrebbero.
Eppure, nel libro, le considerazioni finali dell’Autore aprono alcune prospettive di speranza, come quelle legate alla loro utilizzazione e valorizzazione culturale nell’ambito di un ‘Museo diffuso’ del territorio, in questo caso la Tuscia viterbese e, in specie, l’area di Vetralla, poi della creazione d’una rete di percorsi per un turismo lento e attento alle realtà cosiddette ‘minori’ ma, in effetti, fondamentali per comprendere natura e storia di significative porzioni d’Italia. Ciò sia attraverso la fruizione dei monumenti sia, anche, la viva sperimentazione di espressioni di cultura immateriale, come le tradizioni popolari, le feste, la stessa enogastronomia.
Il volume si presenta come un’ordinata catalogazione di tipi edilizi, illustrati da immagini fotografiche quanto mai affascinanti. Esso accoglie anche una Introduzione, le menzionate Considerazioni finali ed una breve nota, Il paesaggio cambia, con ricordi personali, tutte a firma dell’Autore e lo scritto suggestivo e appassionato di Amerildo Menditto, Gli edifici raccontano.
I vecchi manufatti sono mostrati nel loro stato di abbandono, in una situazione rovinistica altamente poetica e fortunatamente lontana dagli esiti di certi grevi restauri, recuperi o ristrutturazioni capaci di annullare ogni attrattiva dei luoghi. Si possono vedere i vecchi muri, le loro umili ma interessanti strutture messe in vista dalla progressiva caduta degli intonaci, a loro volta arricchiti dei nuovi colori che emergono dai processi di lungo dilavamento. Sono immagini di progressiva ‘decostruzione’ e di quieto ritorno alla natura di tali piccole architetture, con l’acquisizione però di una singolare “bellezza involontaria”, avrebbe detto Marguerite Yourcenar, che le rende elementi in pace col paesaggio a differenza, perlopiù, di quelle nuove o pesantemente ristrutturate.
Non tutti questi edifici, ovviamente, potranno essere salvati ma è importante che, nei limiti del possibile e in buon numero, si riesca a conservarli, pur con minime cure, tali appunto da non snaturarli. Ad essi ben si attaglierebbero le modalità del “restauro timido” di cui ha scritto efficacemente e con grande sensibilità l’architetto Marco Ermentini.
Il lavoro di A. Natali è altamente meritevole poiché esprime, in primo luogo, amore per queste umili testimonianze e per i territori dell’Italia Centrale che le hanno prodotte ed oggi ancora le ospitano; amore non ugualmente vivo, attualmente, nei confronti di altri ruderi, quelli dei numerosi edifici, sempre dell’Italia Centrale, colpiti dai sismi del 2016-17. Il sogno di molti ‘responsabili della ricostruzione’ sarebbe di poterli al più presto cancellare, dando luogo ad una forma di eutanasia architettonica molto gradita alle amministrazioni regionali e locali, incapaci di affrontare problemi complessi come quello, fondamentale, del contemperamento fra le esigenze di sicurezza e quelle di conservazione delle antiche testimonianze. Pronte, quindi, a risolvere il dilemma tagliando brutalmente il nodo gordiano utilizzando anche l’arma di una paura in certa misura eccitata ad arte e di un’informazione sui media grossolana e corriva.
Ma ciò che non è apprezzato né profondamente sentito e, dunque, non è riconosciuto come valore, è soprattutto il paesaggio, nel senso ‘olistico’ d’integrazione di sistemi, realtà materiali e immateriali diverse, delineato dall’Autore nella sua Introduzione.
In tutt’altro ambiente geografico e culturale, nell’area di Matera, da parte di rappresentanti della locale università e, in specie, del professor Antonello Pagliuca, da molti anni si sono condotte e pubblicate ricerche improntate a valori di memoria simili a quelli del volume che qui si presenta. Valori declinati nel senso di una meritoria attenzione alla ‘cultura materiale’ edilizia della prima metà del Novecento, rappresentata da testimonianze analoghe a quelle di cui qui si tratta: laterizi per muri, solai e tetti, bozze di pietre variamente lavorate, malte di calce, bastarde, in cemento ecc. Tutti indagati sistematicamente al fine di preservare il ricordo e anche il valore di memoria d’una continua, intelligente ricerca tecnologica, guidata e stimolata dalla povertà di mezzi. Si pensi solo alle molteplici soluzioni escogitate per costruire, negli anni trenta, quelli delle sanzioni economiche contro l’Italia, buoni solai armati con la minima quantità possibile di ferro.
Di questo lavoro di catalogazione, silenzioso e lodevole, va dato atto, accanto all’Autore, anche all’editore Ghaleb - molto vicino ad un maestro della storia dell’architettura, della città e del territorio quale il compianto Enrico Guidoni - che ha deciso di ospitarlo e diffonderne la pubblicazione.
Nonostante le sue specifiche competenze, A. Natali non fa questioni di valori né, tanto meno, di gerarchie qualitative ma preferisce presentare, per immagini e con brevi note di commento, questa cospicua, fragile e particolare eredità a rischio. È un lavoro che guarda sì al patrimonio cosiddetto ‘minore’, in abbandono e bisognoso di cure, ma muovendosi piuttosto sul piano ‘antropologico’ che su quello, più comunemente preso in considerazione, storico-artistico, ma non per questo meno ‘culturale’. Analoghe intenzioni hanno mosso la creazione di quel singolare e interessante museo denominato della Piana delle Orme, presso Latina, dove l’accumulo e la documentazione presentata quasi senza selezione traduce la ‘quantità’ d’informazioni e di testimonianze materiali in una imprevedibile, speciale ‘qualità’.
Sul degrado da abbandono e disuso, importanti sono le Considerazioni finali che spiegano bene il programma di catalogazione, conoscenza, analisi, conservazione e conseguente valorizzazione sostenibile. Così anche l’idea del ‘Museo diffuso’, cui s’è fatto cenno, quella degli ‘itinerari georeferenziati’ ed anche le iniziative intraprese, di cui si dà precisa notizia, volte a suscitare un interesse locale, dei cittadini, delle associazioni, degli imprenditori e, buone ultime, auspicabilmente anche delle amministrazioni pubbliche.
Per sottolineare, infine, le possibilità risolutive proprie d’una buona architettura di restauro, anche di fronte ai casi più difficili, merita di essere ricordato il recente caso dell’ex-Lavatoio di Sutri, recuperato come fontanile pubblico al centro di una piazzetta storica accuratamente risistemata, operando sapientemente fra conservazione e garbata innovazione, caratterizzata da inserti in rame, per l’adduzione e lo smaltimento dell’acqua, lavorati artigianalmente, su progetto degli architetti Luigi Franciosi e Riccardo D’Aquino.
Non si può concludere questa nota di presentazione senza accennare al testo di A. Menditto che ricorda, con una prosa ed una narrazione volutamente familiari ma affascinanti, la vita in campagna nel periodo della propria infanzia, intorno agli scorsi anni cinquanta, all’interno di una grande e accogliente famiglia. Mi ha colpito una sua frase: “Lentamente ma inesorabilmente i porcili, i gallinai e le conigliare sono stati dismessi … Anche io ho dovuto abbattere degli edifici di questo tipo per sfruttare la cubatura al fine di costruire un casaletto: oggi mi pento di questo perché così ho perso le uniche testimonianze materiali di una civiltà che va scomparendo”. Ecco un esempio, insieme, di amore e rimpianto non tanto per mere attestazioni fisiche del passato quanto, piuttosto, per una civiltà ed una società solidali e vitali, ma anche della cecità, circostanza che troppo spesso si verifica, di norme urbanistiche calate dall’alto e non declinate secondo le reali esigenze dei siti e della loro specifica natura, in una parola del Genius loci, non a caso tanto rispettato dai nostri antichi progenitori.
Questo libro è il frutto dell’applicazione della filiera di trattamento delle fonti che Banda del racconto ha sperimentato e via via affinato nel corso degli anni. Punto di partenza sono le storie narrate da Nazzareno Battaglini. Alcune di esse sono state registrate nel corso di lezioni tenute a studenti di vari gradi d’istruzione, da quelli della scuola primaria agli universitari, come nel caso degli apprendisti narratori di comunità del master di I livello attivo presso l’Università degli studi della Tuscia di Viterbo. Altre parti del testo scaturiscono dalla traslitterazione di interviste. Queste ultime sono state realizzate da Davide Ghaleb nei locali dell’omonima casa editrice. La trascrizione, per la cui realizzazione ci si è attenuti a norme convenzionali applicate ad altri corpus pubblicati in questa stessa collana, è opera di Elia Ghaleb sotto la supervisione di Gabriella Norcia, la quale ha anche curato il montaggio narrativo delle fonti. Questo significa che sono stati operati dei tagli e delle cuciture rispetto al fluire dei discorsi registrati. Tutto ciò facendo attenzione a mai determinare un rivolgimento del senso di quanto detto da Nazzareno. Il taglio di alcuni passaggi, o l’assemblaggio di alcuni brani in un ordine non corrispondente alla sequenza con la quale essi sono stati registrati, è solo apparentemente un tradimento della fonte. Perché – e in questo risiede la cifra del lavoro critico e interpretativo che contraddistingue i volumi pubblicati in questa collana – porre in tensione e creare dei corti circuiti tra i segmenti della narrazione per come è stata consegnata ha consentito di guadagnare una comprensione più profonda del pensiero di Nazzareno, di accedere ad un livello di verità non immediatamente accessibile.
La fiaba di Cardellino, ad esempio, compare in diversi capitoli del libro. Avrebbe avuto senso, in considerazione della necessità di economizzare gli spazi e di rendere scorrevole la lettura dell’opera, emendarla per evitare inutili ridondanze. Si è scelto di perseguire un’altra strada. Si è optato per riportarla ogniqualvolta essa è venuta a cadenza perché costituisce un elemento forte e ricorrente delle performance narrative di Nazzareno. Perché una cosa appare chiara, e va sottolineata. Nazzareno, sia nelle interviste, ma soprattutto nelle sue lezioni, espone la sua visione dell’agricoltura, che poi è una visione del mondo, come atto riflesso, con consapevolezza. Il suo è un linguaggio levigato. Il parto di una poetica. Nazzareno esprime padronanza non soltanto rispetto ai contenuti di cui parla, ma anche al modo in cui lo fa. In questo senso la ripetizione corrisponde ad una precisa strategia retorica. Non c’è nulla di naif nel modo in cui Nazzareno si rapporta ai suoi interlocutori e nel suo modo di raccontare. La sua è una narrazione, sapientemente costruita e ripetutamente sperimentata, fatta di blocchi, di segmenti che di volta in volta vengono ricombinati in sequenza tra loro. Il fatto che la fiaba di Cardellino (che poi è anche il nome dell’azienda fondata da Nazzareno) venga riproposta in maniera pressoché regolare in ogni occasione rende la stessa il vero e proprio mito di fondazione del modo di vita e di lavoro di cui Nazzareno è artefice.
Giovanni Carbonara
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