La verità: questo, di cui pure andiamo fieri, è un libro che avremmo preferito non fare. Perché certamente tutte e tutti noi preferiremmo che Ostelvio Celestini (1934-2020) fosse ancora qui. A confortarci con la sua saggezza, con il viatico della sua amicizia. E invece ci ha lasciato.
Al tempo stesso però, questo era un libro necessario. Assolutamente prezioso. Cercherò di spiegarne i motivi.
Innanzitutto perché negli ultimi anni della sua vita Ostelvio, oltre a rappresentare un punto di riferimento imprescindibile per la valida pattuglia di poete e poeti dell'associazione Tuscia dialettale (amavamo chiamarlo “il decano”: epiteto che lui, per connaturata-splendida umiltà, tendeva a schivare), ha anche ricoperto con rigore e libertà di giudizio, perizia e abnegazione il ruolo di presidente onorario della giuria delle prime tre edizioni (quelle svolte fin qui) del concorso a premi La léngua vitorbese per la miglior poesia in dialetto locale: avventura dalla quale è fiorita la collana omonima dell'editore Davide Ghaleb, di cui il presente volume segna il settimo episodio.
Ma questo era un libro necessario anche, e vorrei dire: principalmente, perché della tradizione il cui solco fu originariamente delineato da Enrico Canevari, e poi a seguire, a partire dagli anni '60-'70, in un'Italia che freneticamente andava cambiando volto, smemorandosi delle proprie radici storico-culturali, da Emilio Maggini ed Edilio Mecarini (ciascuno dei tre dedicatario di una delle edizioni del premio), Ostelvio ha rappresentato il naturale sviluppo e affinamento in termini di autocoscienza del fare e del pensare la poesia dialettale.
Maggini e Mecarini soprattutto. Entrambi nati, come uomini e come poeti, in seno al rione viterbese chiamato Pianoscarano – Piascarano, chioserebbe a questo punto Ostelvio – e a Piascarano legatissimi. Per le peculiarità conservative del suo dialetto e per una condivisa vocazione a farne materia centrale del proprio canto. Piascarano quartiere di popolo, contadini e artigiani: un minimale quanto prezioso sentimento del mondo, del nostro stesso vivere. Leggenda di un'umanità umile e solidale, virtuosa e perciò esemplare. E dunque, in qualche modo, universale.
Il più vecchio dei due, Emilio Maggini (nato 1900, contadino), rappresentava agli occhi di Ostelvio la fedeltà al dialetto dei vecchi: dialetto di un tempo che fu, quel dialetto-dialetto che l'aveva incantato nelle domeniche mattina di bel tempo, quando da ragazzino se ne beava, ascoltando gli anziani seduti a chiacchierare fuori porta del Carmine. Scelto “dal” dialetto come “natura” linguistica, Maggini portava in scena, nella propria poesia, la risentita dignità dei poeti popolari della tradizione folklorica, castigando sentenziosamente le derive del progresso e cantando la vita quotidiana di un universo in rapida erosione.
Edilio Mecarini invece (nato 1923), più giovane del primo di quasi un quarto di secolo, di professione fu barbiere. Artigiano dunque, “uomo di consiglio” (come lo avrebbe certamente appellato Benjamin). Risultandone avvezzo a maggiori “commerci” culturali con la piccola borghesia cittadina e maturandone di conseguenza aspirazioni per una poesia di lirica pura. Di Ostelvio (impiegato delle ferrovie ma di radici artigiane), Mecarini fu vero maestro, fratello maggiore (gli era di una decina d'anni più vecchio) e compagno d'avventure in versi: egli seppe incoraggiarlo sulla via di un dialetto “perduto” da salvare (poesia come ricerca e riproposta) nonché di scelte stilistiche sempre più consapevoli.
La cosa potrebbe sembrare curiosa, ma proprio queste linee “critiche” (accostate-conniventi e al tempo stesso irrimediabilmente divergenti) della poesia dialettale viterbese, nella maturità di Ostelvio sono andate manifestandosi in forma di una sempre più alta-inequivocabile consapevolezza autocritica: leggere, per convincersene, il capitolo a sua firma intitolato Autobiografia della poesia dialettale costruito dal sottoscritto col rodato-affidabile metodo del collage parola per parola, frase per frase, a partire dalla lectio da lui tenuta nel 2017 all'Università della Tuscia (in seno al master Dibaf per “Narratori di comunità”) e da una lunga intervista realizzata nella veranda di casa sua, nel 2019. Il lettore tenga presente che un'intervista è sempre evento orale, ove la verità è affidata dal narratore all'energia performativa della parola formulata ad alta voce. Ferma perciò restando l'esigenza di garantire alla pagina scritta la miglior leggibilità possibile, nel trascrivere ho cercato di mantenere il sapore, gustoso e inconfondibile, del parlato di Ostelvio. A tal fine mi sono avvalso di certi maliziosi taglia-e-cuci nonché della forza ritmica offerta dalla punteggiatura, particolarmente dalla negletta-abusata virgola.
Rispetto ai precedenti volumi de La léngua vitorbese questo libro rappresenta anche un esperimento importante, assolutamente innovativo. Esso infatti, affinando la metodica praticata dall'associazione culturale delle Comunità narranti, è stato interamente tessuto, capitolo dopo capitolo, con tecnica artigiana e condivisione costante, insieme con la famiglia di Ostelvio: l'amatissima moglie Lina e gli impagabili figli, Luigi e Paola in prima fila, ma anche la nuora Laura, il genero Stefano e i nipoti Chiara, Lilia, Ludovica e Maurizio. Con loro, per fare un esempio, sono state scelte le foto dall'album di famiglia e con le loro parole è stato realizzato il tenerissimo capitolo dedicato all'Ostelvio uomo (marito, padre, nonno; ma non solo) che le introduce, intitolato Per una biografia degli affetti. Da cui, tra l'altro, vien fuori l'idea di una forte distinzione nella vita di Ostelvio, separazione gelosamente protetta, tra sfera pubblica e privata. Da una parte cioè poesia e militanza politica – altra grande passione di una vita, perseguita con inflessibile dirittura morale (il lettore potrà rendersene conto da sé gustando i componimenti sul tema antologizzati nella relativa sezione del Florilegio) – dall'altra la famiglia, i sentimenti. Anche se poi, a saper leggere tra le righe, e neanche troppo, l'uomo restava uno, integrale, colmo di pietas cristiana e dignitosa humanitas in tutte le sue manifestazioni. Illuminando pure certe future passioni di alcuni dei suoi figli e dei nipoti.
Tale discorso su una condivisione progettuale allo stretto con la famiglia Celestini vale ancor di più per la sezione centrale del volume: il Florilegio ragionato dei versi dialettali di Ostelvio. La selezione dei componimenti dalla sua ricca e multiforme produzione è stata infatti puntualmente condotta sulla scorta delle indicazioni critiche dei figli Paola e Luigi. A firma di quest'ultimo sono oltretutto buona parte delle “cornicette” in corsivo che accompagnano e interludiano, di sezione in sezione, le poesie antologizzate.
A proposito di Ostelvio poeta e dei suoi versi c'è da ribadire alcune questioni di non secondaria importanza. Personalmente lo conobbi nel 2013, nel corso di una passeggiata-racconto delle nostre, dedicata, era la sera del 31 ottobre, a Pianoscarano e alle sue tradizioni: vecchi mestieri e feste comandate, superstizioni, fantasmi e sassaiole. Ospite d'onore, Ostelvio declamò per strade e piazze del suo quartiere alcuni componimenti scelti per l'occasione. Voglio essere sincero: non mi fece una particolare impressione. Anzi. Mi sembrò, quella sera, insostenibilmente meticoloso e lento. Sillabazione stentorea e lunghe pause. E un ricorrente-curioso espediente ritmico cantilenante a “fisarmonica” (rallentando-accelerando). Avevo torto. Me ne sarei abbondantemente ricreduto. Non a caso nelle brevi testimonianze che aprono questo libro, affidate ai suoi colleghi di giuria nel premio dialettale (Benedetti, Giuliani e Mecarini), l'elemento ricorrente è una lode incondizionata proprio alla maestria del suo modo di leggere-declamare ad alta voce il dialetto nostrale: Ostelvio insomma sapeva bene quel che faceva.
Alta la sua competenza metrica, innanzitutto. Non solo quartine o distici di endecasillabi, dal passo narrativo, ma anche metri brevi, maggiormente cantabili e giocosi, a seconda dei casi (senari o settenari, per esempio). E c'è pure la sua vigile cura per uniformare punteggiatura, ortografia e segni diacritici (apostrofo e accenti); attenzione certo empirico-artigianale e costellata di aggiustamenti in corsa, a volte anche in contraddizione con sé stessa (segno inequivocabile di una tradizione locale complessivamente insicura, storicamente indebolita da complessi d'inferiorità), ma non per questo meno lucida: Ostelvio aveva chiarissime in mente le ambiguità, le contraddizioni, le divaricazioni tra i registri della parola in lingua e quella in dialetto, tra rigore della scrittura e vocazionale oralità del dialetto: magistrali in tal senso le sue puntigliose osservazioni in Autobiografia della poesia.
Per questo motivo, nel trascrivere i suoi componimenti, abbiamo optato per una normalizzazione ortografica “dolce”, che si limitasse cioè a sanare, insieme con i pochi evidenti refusi, alcune palesi sviste e contraddizioni. Solo per fare alcuni esempi:
per le vocali finali delle parole polisillabiche tronche si è preferito l'accento, laddove in Ostelvio compare spesso anche l'alternativa dell'apostrofo: andà, per intenderci, piuttosto che anda'
per l'articolo determinativo si è invece regolarizzata la collocazione dell'apostrofo a sinistra piuttosto che a destra della elle (e viceversa), quando si tratti del singolare maschile el ('l) piuttosto che del plurale indeterminato le (l')
si è “corretta” l'inclinazione dell'accento tonico su certe e ed o (é piuttosto che è, ó piuttosto che ò) laddove essa – in realtà dettata spesso da certi automatismi della tastiera del computer – andasse in collisione con la pronuncia reale oppure con le più familiari consuetudini ortografiche dell'italiano standard
Abbiamo morbidamente omologato anche laddove appariva chiaro come Ostelvio fosse andato, nel corso degli anni, perfezionando-sistematizzando il proprio criterio, cioè “autonormalizzandosi” in itinere: come nel caso di un certo ravvicinamento “nostalgico” ottenuto tramite apostrofo; laddove infatti egli scrive a'la, sembra oscillare indeciso tra una forma analitica dialettale colta a orecchio (preposizione semplice + articolo distaccato: a la) e quella sintetica (articolata) dell'italiano standard (alla).
Si è ritenuto più giusto invece non “sanare” altre contraddizioni che sembrerebbero piuttosto dovute a mutazioni della tradizione ortografica italiana: per fare un esempio, la preferenza di Ostelvio per le forme del verbo avere con l'accento piuttosto che con l'acca iniziale (ò, ài eccetera, per intenderci, piuttosto che ho, hai eccetera); il lettore più smaliziato di questioni di storia della lingua non faticherà a ricordare come nei libri delle scuole elementari degli anni '30 (e non solo in quelli) si usasse ancora l'accento invece dell'odierna acca.
Si rilegga a contrasto, nel segno di quanto appena detto – sempre parole di Ostelvio, nell'Autobiografia – l'agrodolce caso dell'unico libro da lui pubblicato in vita: M'aricordo... Piascarano che fu (qui citato in appendice). Progettato-voluto da Ostelvio in prosa dialettale, concepito cioè come vera e propria cattedrale della memoria ove le “parole” si sarebbero fatte “naturalmente” carico di salvare-traghettare verso il futuro le “cose” di un mondo popolar-dialettale ormai perduto, nel segno di una complicità antropologica tra lingua e mondo, Ostelvio fu invece incoraggiato da qualche uomo di cultura ad abbandonare la parlata materna per proseguire in italiano. Nell'illusione che la presunta universalità dei contenuti trovasse ostacolo nel localismo della forma linguistica. Laddove era vero l'inverso. Pensando di far bene, Ostelvio decise di accettare la proposta e scrisse M'aricordo in italiano. Salvo rammaricarsene, più di una volta, nel tempo a venire. Questa contrastata “faglia” identitaria è significativa. Poiché tra le prose di M'aricordo e l'opus poetica di Ostelvio si registrano frequenti casi di osmosi, si è ritenuto utile a questo proposito sottoporre al lettore almeno un caso di un tale “slalom parallelo”: la sezione s'intitola Tra prosa e poesia, tra lingua e dialetto il componimento scelto è l'umoristico La festa del cióco. Legga, il lettore, non se ne pentirà. Poi giudichi da sé. Divertente la prosa, certamente; ma serrata-umoristica-esplosiva la poesia, infinitamente più incisiva.
In termini tematici, della poesia di Ostelvio va rimarcata la lenta e complessa elaborazione estetica. Non a caso la sua produzione risulta difficilmente riconducibile agli schematismi tipici della tradizione che lo aveva preceduto e sulla quale noi di Comunità narranti avevamo strutturato i volumi precedenti, dedicati ai suoi maestri. In tal senso, il lettore voglia considerare i titoli delle sezioni su cui si è organizzato il presente Florilegio poetico (natura, fede, tradizioni, presente e passato, politica, pensieri eccetera): non faticherà a rendersi conto che alcuni dei componimenti potrebbero transitare con naturalezza sotto altre voci. Segno ulteriore di un metabolismo poetico gestato a notevoli profondità interiori. Il Piascarano di Ostelvio, insomma, sembra aver acquisito i tratti di un paesaggio dell'anima, finendo per somigliare, anche se magari solo in sessantaquattresimi, all'immaginaria faulkneriana contea di Yoknapatawpha. A conti fatti, la struttura fluida del Florilegio tenta di assecondare ricchezza e prismaticità della poesia e della poetica di Ostelvio, valorizzandole senza troppo irrigidirle.
Per un ritratto completo di Ostelvio infine, non poteva mancare una sezione dedicata al suo lavoro nel campo dell'arte visiva (praticata con dedizione per tutto l'arco della vita): una galleria minima d'immagini (nei limiti del possibile, esemplare) dei suoi lavori a sbalzo, sculture, incisioni, smalti su metalli, pitture a olio, nonché oggettistica. Il tutto introdotto da una pagina a firma del sottoscritto, pubblicata sui social in occasione della magica visita guidata con cui Ostelvio stesso accompagnò-incantò me e Marco D'Aureli attraverso le opere della sua personale: una mostra voluta da Fondazione Carivit e allestita al Museo della Ceramica di palazzo Brugiotti nel 2018. Quell'inaugurazione coincise, tra l'altro, con la prima uscita ufficiale dell'attuale presidente della Fondazione stessa, Marco Lazzari, il quale avrebbe in seguito avuto parole di vivo apprezzamento per Ostelvio, l'uomo e il poeta, oltreché l'artista. Nella presente galleria, intitolata Suggestioni in luce, riprendendo proprio il titolo di quella felice esposizione, si va da un vecchio dipinto della metà degli anni '60 con una veduta di piazza San Pellegrino, alla Croce per la chiesa di Sant'Andrea a Pianoscarano e altro ancora. Sarebbe interessante riflettere sulle ragioni di certi abbinamenti tra temi affrontati e materiali-tecniche di lavorazione adottati. Per un profilo critico complessivo dell'attività artigianal-artistica di Ostelvio si rimanda al bel catalogo della mostra (qui citato in appendice).
Antonello Ricci |