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IL TEMPO CHE MI E' STATO DATO
IL DIARIO STRAPPATO
Adriana Martino


Presentazione
Marcello Panni

Ho conosciuto Adriana nell’estate 1956 come interprete della Pastorella nel Devin du Village, unica opera di J.J. Rousseau. Una ripresa inusuale in quegli anni di un gioiellino, nato come imitazione francese de La Serva Padrona. Il quadro perfettamente calzante era un delizioso teatrino di verdura nel parco della villa di Paola Zingone al Casaletto, allora in piena campagna romana.
Paola era una ricca signora (Zingone veste tutta Roma) colta e appassionata di musica, sposata a Carlo Belli, critico d’arte, poeta, pittore e scrittore del più importante testo teorico italiano sulla pittura astratta, Kn. Si erano conosciuti cantando entrambi nel coro di dilettanti dell’Accademia Filarmonica e dopo sposati il fine poeta aveva, per così dire, attaccato il cappello al chiodo.
Passava il tempo a oziare in villa, a dipingere quadri astratti, scrivere poesie e a programmare un paio di volte l’anno delle esecuzioni campestri di musica barocca o contemporanea a cui anch’io partecipavo con entusiasmo giovanile. Un clima di raffinata cultura incomprensibile oggi, ma molto influente sulla mia formazione. E non mi dilungo qui su questo.
L’importante è che in quell’occasione conobbi Adriana, io sedicenne musicista in fieri, lei deliziosa ventenne giovane cantante in ascesa (forse ancora stava al coro della Rai?) e facemmo amicizia: entrambi per curiosità. So che in quella serata fu notata da mia madre, per la figurina deliziosa e la vocalità perfetta, tanto da scritturarla per qualche altro concerto alla Filarmonica. La ricordo con il manieratissimo maestro Favaretto in liriche di Petrassi e Pizzetti, o forse con Renato Fasano, nelle Cantatrici Villane di Fioravanti all’Eliseo.
Fatto sta che quando quattro anni dopo mi trasferii a Milano per studiare direzione d’orchestra con Antonino Votto al Conservatorio di Milano e mi ritrovai sbalzato dal salotto di mia madre, al centro della cultura romana, alla tristezza di una pensioncina, passando dal sole romano alla nebbia milanese che si tagliava col coltello, caddi in una depressione tremenda.
Così mi ritrovai spesso la sera a vagare da solo per la Galleria, dove la nebbia non permetteva di vedere oltre due metri. Mia madre preoccupata chiamò Adriana, una delle poche persone che conoscessimo a Milano, e le consigliò di farmi una telefonata alla pensione dove abitavo e prendevo i pasti da solo. Fu così che fui invitato ogni tanto a cena con la scusa di accompagnarla al pianoforte. Di me non aveva alcun bisogno, avendo già cominciato una relazione con Benedetto Ghiglia, maestro sostituto della Piccola Scala, che diventerà il suo compagno di vita e poi mio grande amico.
Quelle cene nel suo appartamentino modesto nel quartiere universitario (a poca distanza dall’abitazione di Donatoni di cui si parla in un capitolo esilarante di questo libro), con cucina partenopea, spaghetti colla pommarola, conversazione a tutto campo, furono tra i pochi raggi di sole di quel mio inverno milanese 59/60. Ricordo di aver scoperto i Lieder eines fahrenden Gesellen di Mahler accompagnandola al pianoforte ed essere scoppiato in un pianto irrefrenabile alla fine, mi sentivo QUEL viandante. Nell’estate successiva i miei rapporti con lei e con Benedetto (dopo breve tempo mi fu chiarito che il suo cuore era impegnato con lui dopo un momento di segretezza iniziale) si fecero più intensi all’Accademia Chigiana. Benedetto ed io ci ritrovammo lì l’anno seguente a Siena, e lei al seguito, per seguire il corso di direzione d’orchestra di Sergiu Celibidache, il didatta più importante che abbia mai conosciuto per la tecnica direttoriale.
La mia situazione mentale, tornando a Roma, si era intanto sbloccata, ma non per questo io non le sono rimasto riconoscente per quegli attimi di luce partenopea nelle nebbie milanesi.
E anche per tante conversazioni, confidenze e consigli negli anni successivi, fino a ieri l’altro…
Saltando parecchi anni di amicizia un po’ alla lontana, un altro evento mi ha fatto ricordare questo suo libro di memorie. Durante la Festa dell’Unità alla Fiera di Roma, di cui parla nella seconda parte, partecipai anch’io col mio Tangomix per ensemble da camera. Diretto da Vittorio Bonolis con un complessino di ottimi musicisti della RAI di Roma, fu eseguito ogni sera per tutta la durata della Festa dell’Unità, a quei tempi ricchissima di eventi di ogni tipo, insieme a brani di Donatoni, Pennisi e altri nel padiglione del Cabaret musicale, davanti a un pubblico vociante e tra i rumori di altri padiglioni. Ma era un pubblico ben diverso da quello delle sale da concerto asfittiche, quello appunto che Adriana andava cercando.
Il mio breve pezzo, un frullato casuale di 24 frammenti di tanghi storici manipolati, mi fece riscoprire la felicità di scrivere in un linguaggio pseudo- tonale, se pur realizzato con metodi aleatori. Tangomix fu l’inizio di una resurrezione della mia voglia di scrivere musica dopo alcuni anni di afasia.
Grazie anche per questo ad Adriana!
Esaurito quello che le devo, parliamo ora dei suoi meriti artistici, o carriera.
Parte prima: che dire di una giovane e graziosa cantante, star della Piccola Scala, dell’opera buffa, di Pergolesi, di Cimarosa, di Mozart? La prima volta a Vienna ci andai per sentirla nella Zauberflöte al “Theater an der Wien”, ed era una divertentissima Papagena alla napoletana.
La sua parabola lirica andava sempre in crescendo ovunque (la chiamava Karajan per Bohème alla Scala) quando gli eventi della politica sessantottesca e un certo disgusto per il terreno frivolo dell’opera lirica le fecero abbandonare l’agone dei sovrintendenti incompetenti, dei direttori artistici corrotti, degli agenti intrallazzatori che infestano quel mondo.
Con mia grande sorpresa, tornando a Roma da Parigi, dove avevo passato una decina d’anni, negli anni ’70 ritrovai una cantante impegnata nel repertorio della canzone d’autore del Novecento, Schoenberg, Eisler et similia, da far concorrenza a Milva e a Strehler.
In quel periodo, gli anni Settanta e Ottanta, l’agitazione politica non si conciliava più con gli ori e i velluti dell’opera. Ne ammirai il coraggio e l’intraprendenza e il talento di regista-autrice-cantante-impresaria -agitatrice impegnata sul fronte comunista.
Parte seconda: stabilitasi a Roma con Benedetto, che la spalleggiava con il suo umoraccio toscano e la sua intransigenza politica, ci vedevamo spesso all’Opera di Roma, dove Benedetto era diventato vice presidente e mi soccorse in più di una delle mie avventure sperimentali con Morton Feldman, Aldo Clementi, Philip Glass, Bob Wilson. A mio modo battagliavo anch’io!
Parte terza: alla fine degli anni Ottanta divennero miei vicini di casa a Capalbio dove ero andato a risiedere dal 1977 in tempi non ancora sospetti di snobismo. Sulla spiaggia d’estate, davanti ai camini d’inverno, quanti discorsi riprendemmo, commenti, cattiverie, ricordi e passeggiate.
Sempre polemica, decisa, un’opinione ferma su tutto: nonostante l’età avanzata e la recente perdita drammatica di Benedetto, su presente, passato e… futuro!
Da un’infanzia complicata dalla guerra, dai giardini profumati di una ricca borghesia, da Pastorella e Papagena sulle scene internazionali a donna di battaglie politiche, sindacali, culturali, beh, una bella parabola, di cui questo libro è una veritiera e disinibita testimonianza!