GIARDINO E MORTE DEL SIGNOR PALOMAR e altre storie
Antonello Ricci
A più di cinque anni dall’ultimo di quelli che mi piaceva (e piace) definire racconti metricati (inaugurati da 1932) ecco che risuccede. Dopo una feconda-febbrile stagione di incontri reperti-reliquie agnizioni, ancora una volta rallento, mi volto indietro e mi capita quel che a Zanzotto capitava spesso (ne parlava in un brano che tanto mi colpì ma che oggi, a ricercarlo sui miei scaffali, come al solito, non trovo più): il mio nuovo libro è pronto, questo Giardino e morte del signor Palomar mi sorride, mi fa cenno, si conclama finito. Io? Io devo solo riconoscerlo. E parlo di un libro perché, a dispetto della sua evidente-dominante natura di raccolta, attraverso Giardino e morte si manifesta un telos, postumo quanto evidente: che intimamente ne compatta i primi quattro pezzi, i più recenti (2017-18), pur germinati ciascuno per propria precipua occasione-ragione. Li chiamo pezzi ed esito a chiamarli altrimenti, se non indagini-narrazioni, poiché sorti a un bizzarro crocevia tra ricerca sul campo, florilegio-giardino critico e poesia-racconto. Perché sia chiaro: Giardino e morte desidera accreditarsi anche come riflessione su forme e possibili in letteratura. Intendo qui per telos la forte tensione all’autobiografia. Tensione autobiografica che dai parallelismi quasi didascalici di Giardino e morte del signor Palomar (il posto di vacanza, i genitori) per inserti-lacerti-giunte-intermittenze sempre più insistenti-consistenti, nonché maliziosi, tra Kinski a Venezia e Rovine dal futuro è andata articolandosi urgendo e premendo ben oltre le questioni del contenuto, fino a imporsi in Ritorno a Sciangai come forma dominante del dettato (a proposito, si verifichi però prudentemente il ricorrere nei sottotitoli della formula a forme). Ma anche, dittatore inatteso-imprevedibile, il telos di un metodo di scrittura-vampira: suzione-e-riscrittura di brani d’autore nonché trascrizione di schegge di parlato da film eccetera: operazione puntualmente condotta in versi, con esiti che si spingono ben oltre-il-collage. Con tratti di oltranza-oltracotanza cannibalica. Meritano comunque almeno un cenno le occasioni specifiche di ciascun pezzo. Giardino e morte del signor Palomar. Tanti anni fa, sul principio dei ’90, vagheggiai a lungo un racconto sulle ultime ore di Italo Calvino: galeotta l’occasione localista dei suoi soggiorni estivi in Maremma, nella pineta di Roccamare presso Castiglion della Pescaia, dove cominciò a morire. Progettavo pure di farvi in qualche modo confluire l’ultimo dei miei primi-racconti (composti quando pensavo che sarei diventato autore di narrativa), l’unico fermatosi allo stadio progettuale (era il 1987): la storia di un poeta improvvisatore contadino morto suicida per impiccagione nella sua country cabin (si veda qui: Morte di un poeta popolare). Il sottotitolo Il posto di vacanza è un omaggio a Vittorio Sereni. Kinski a Venezia è nato invece, più di recente, dalla folgorazione di un ascolto-lettura ad alta voce svolta per me da mio figlio Lorenzo in macchina durante un viaggetto nei dintorni: la lunga dettagliata incredibile testimonianza di Luigi Cozzi sulle esilaranti-grottesche, improbabili-poeticissime peripezie provocate dal patologico divismo fuori controllo di Kinski sul set dello sfortunato sequel Nosferatu a Venezia. Il progetto si è successivamente esteso alla ricognizione di una idea-poetica di vampirismo come forma vitale a pieno titolo e di qui a un prodromo di riflessione sulla natura che già slitta su-allude a Leopardi e Sade. (Decidi tu, lettore, se si tratti di promessa o minaccia.) Rovine dal futuro. Dopo il mio (tardivo quanto appassionante) dottorato di ricerca in odeporica su Marianna Dionigi e conseguente indagine sul rovinismo come forma del pensiero da sempre costellante-caratterizzante il cursus della mia stessa vita-scrittura e da sempre accompagnantemi come una vera Pedagogia di Cose, non ho saputo resistere alla tentazione di farmi questo dono: fondare criticamente la mia disciplina preferita, l’archeo-fantascienza. In realtà ho durato qualche fatica nella messa a fuoco dell’operina, essendosene fatta largo l’idea prima-indistinta (quindi impropriamente) fra le pieghe del Kinski a Venezia (in appendice al capitolo ivi consacrato ad Alien, dove pure troneggia un’astronave-rovina). Il lettore giudicherà. Ritorno a Sciangai. Per la posologia d’uso si veda quanto supra scritto a proposito della formula a forme. Non desidero aggiungere altro. Se non che costante è stata, per tutta la stesura, l’idea-dubbio di quanto sottile e ambiguo possa risultare il confine tra scrittura autobiografica e pornografia della vita. L’accordatura autobiografica in crescendo culminata con Ritorno a Sciangai mi ha poi convinto a tornare sui miei passi. Ho quindi deciso di riprendere in mano e riproporre, in contesto nuovo e inedito, il poemetto Il colombiano già uscito, era il 2011, per i tipi di Davide Ghaleb (detto il Santissimo) quale libretto di sala per l’omonimo reading-concerto (per la regia di Alfonso Prota). Ho sentito giusto riproporlo qui nell’italiano sostanziale-primigenio della stesura originaria: alleggerito cioè dalla zavorra degli intarsi-impreziosimenti di coloritura partenopeo-ispanoamericana finalizzati a suo tempo alla messa in scena. Il sottotitolo virgolettato «Tell me again ecc.» è un omaggio a Jamie Lee Curtis. Chiudono Giardino e morte due pezzi riaffiorati dal cassetto degli inediti, datati entrambi al 2012. Il primo s’intitola Le due città, un’invenzione dal vero della tormentata parabola creativa e di vita del pittore viterbese Carlo Vincenti, morto suicida nel 1978. Originariamente questo racconto metricato formava un dittico di comune ambientazione manicomiale (e senese) con Fuori da dove (pubblicato a sé, nello stesso 2012, per le cure dell’editore arcidossino Effigi, l’amico Mario Papalini; titolo originario: Il demente). L’evidente cifra biografica (visibile fin nella titolazione dei capitoli) rende Le due città particolarmente familiare al contesto di Giardino e morte. Il secondo inedito invece, Intorno a questa tavola imbandita, è un divertissement metapoetico: si articola in tre brevi monologhi-variazioni sul tema del pianto di Ulisse e del racconto come inganno e medicina, centrale in Odissea VIII. Sempre a proposito di menzogna e narrazione, sarei tentato anche dalla commovente figura di Eumeo, il porcaro fedele che siede intorno al fuoco con Ulisse nella Madre di Tutte le Notti, quella del ritorno a Itaca del principe in incognito: prima o poi toccherà anche a lui. (Anche qui decidi tu, lettore: promessa o minaccia?) Per ciò che concerne le foto che cadenzano il volume: sono tratte da alcune riprese effettuate da Lorenzo Ricci nell’inverno 2017 nel corso di un sopralluogo presso le rovine dal futuro del mai-completato Ospedale Psichiatrico di Viterbo, il cui cantiere fu dismesso più o meno a margine dell’entrata in vigore della Legge Basaglia (1978). Quanto al profluvio di citazioni. Imbarazzo. Stento però anche a definirle tali: il processo di mia-riscrittura si è ormai spinto troppo oltre, non si tratta più nemmeno di sintassi eversiva da collage. Se per i racconti raccolti in Giardino e morte volessi davvero tentare di saldare in dettaglio (in esplicito) tutti i debiti contratti, mi ritroverei nell’umoristico scacco denunciato dal narratore manzoniano nel proverbiale congedo dell’Introduzione: Ma che? Quando siamo stati al punto, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, potrebbe parer cosa ridicola; la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo. Il mio lettore ne converrà: non era proprio cosa. Per cui, con buona pace del diritto d’autore, ho tolto note e virgolette. Mi limito qui di seguito a doverosamente rubricare in ordine alfabetico le vittime dei principali debiti-prelievi testuali (per il parlato dei film preferisco citare, per motivi di evidenza critica, i nomi dei registi piuttosto che gli sceneggiatori): Ariosto, Luca Baranelli, Stefano Bessoni, Jorge Luis Borges, Eugenio Bottacci, Pierre Boulle, Mike Butterworth & Don Lawrence, Italo Calvino, Aldo Carotenuto, Arthur C. Clarke, Paolo Conte, Merian C. Cooper & Ernest B. Schoedsack, Luigi Cozzi, Giorgio Cusatelli, Dante, Daniel Defoe, Alexandre Dumas, Ernesto Ferrero, Paola Forneris, Ugo Foscolo, Fruttero & Lucentini, Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, Werner Herzog, Peter Jackson, Klaus Kinski, Pola Kinski, Giacomo Leopardi, Valerio Magrelli, Eva Mameli & Mario Calvino, Alessandro Manzoni, Loretta Marchi, Claudio Milanini, Vincenzo Monti, Omero, Pier Paolo Pasolini, Pia Pera, Tullio Pericoli, Luigi Pirandello, Sade, Tito Schiva, Heinrich Schliemann, Ridley Scott, Steven Spielberg, Robert Louis Stevenson, Giovanni e Sandro Veronesi, Billy Wilder, Andrea Zanzotto. L’Editore resta comunque ovviamente-cordialmente a disposizione degli eventuali aventi diritto. [Antonello Ricci (Viterbo 1961) insegna presso l’Istituto Magistrale della sua città. È dottore di ricerca in «Storia e cultura del viaggio e dell’odeporica nell’Europa moderna» presso l’Università degli studi della Tuscia. Protagonista di numerose esperienze di impegno civile (dalle inchieste per il settimanale Sotto Voce alle passeggiate-racconto nella battaglia per la istituzione del parco regionale Valle dell’Arcionello) è studioso interdisciplinare, poeta, performer, animatore culturale. Di formazione antropologica, ha pubblicato saggi scientifici di storia orale, antropologia della scrittura, poesia improvvisata e didattica della scrittura su riviste specializzate quali Italiano & Oltre, La Ricerca Folklorica, I Giorni Cantati, Il Mulino. Suoi articoli anche sul quotidiano Il Manifesto.Ha firmato vari libri e curatele per gli editori Vecchiarelli, Sette Città, Effigi, Stampa Alternativa. Collabora stabilmente con Davide Ghaleb Editore dal 2009.]
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