Prefazione
Franco Cardini
Di Federico II, imperatore e re di Germania, d’Italia, di Borgogna, di Sicilia e di Gerusalemme, si crede di aver detto e scritto tutto; i non moltissimi – neanche tanto pochi, badate – documenti prodotti durante il suo regno sono arati in lungo e in largo, e se si potessero allineare le monografie e i saggi a lui dedicati in un’immaginaria biblioteca (ma biblioteche di questo genere, da Palermo a Gottinga, esistono…), si riempirebbero chilometri di scaffali. Eppure, si sente al tempo stesso la voglia, generazione dietro generazione, di tornare ai classici – quali il grande libro di Ernst Kantorowicz – e la necessità di ripercorrere i cammini già conosciuti e di tentarne di nuovi, sulla base magari delle nuove metodologie e delle nuove tecniche della ricerca storica. Così Federico ci appare dal saggio legislatore delle “Costituzioni di Melfi” al fondatore – con la “Constitutio in favorem principum” – della moderna Germania, dal crociato intento a sciogliere con gli strumenti della diplomazia i nodi che i conflitti armati non erano riusciti fino allora a tagliare all’indagatore sottile della natura, al tollerante e lungimirante signore degli anni sereni di governo al cupo enigmatico tiranno degli ultimi tempi; dal geniale committente di fortezze e di castelli alla figura mitica sulla quale si è a lungo esercitato il romanticismo europeo; da tutti questi punti di vista e da molti altri ancora, Federico permane un’incognita i tratti costitutivi della quale, presi uno per uno, possono esser noti e addirittura abusati, ma che nel suo complesso peraltro ci sfugge.
Può la letteratura arrivare dove la ricerca storica si arresta? A dire il vero, anche questa via è stata, nel caso di Federico, più volte e con differenti esiti battuta. In quella fascia marginale che dalla “storiografia romanzata” va al “romanzo storico”, il sovrano svevo è stato più volte e con differente intenzione ritratto.
Dicono che, fra i vari “generi” della letteratura storica, la biografia – uno dei più criticati dagli specialisti – sia il più popolare, il meglio accetto, il più duro a declinare.
Sappiamo anche che, nella storia intesa come sapere scientificamente organizzato, l’avvenimento è ormai tornato a occupare anche sotto il profilo concettuale il posto che gli competeva. E in questo rinnovato gusto per i fatti e le cose, Federico II ci viene ancora una volta incontro con il carico della sua importanza di grande statista e con il peso della sua personalità di uomo tormentato, non sempre – e forse quasi mai – felice, isolato entro il cerchio magico del potere e della solitudine che esso comporta.
La storia è un antidoto all’angoscia dell’esistere: annulla il passato nel momento in cui, rievocandolo, lo stabilisce e lo riconosce in quanto tale; è una forma di necromanzia, di colloquio con quel mondo di morti che è il deposito dei tempi che non sono più, dal quale tuttavia salgono i sussurri e le grida delle testimonianze; consegna definitivamente le età finite al mondo delle età finite, eppure le fa rivivere continuamente, rinverdisce le emozioni e le passioni e al tempo stesso le interpreta e quindi le disincanta.
Vi sono molti modi per ricostruire il passato. Uno è senza dubbio quello di tuffarsi nel gorgo variopinto dei nomi, degli eventi, dell’intrecciarsi di trame di cose avvenute davvero eppure più romanzesche dei romanzi. Un altro consiste nel ricostruire pazientemente i problemi, farseli maturare ed echeggiare a lungo dentro, infine lasciare che giungano alla chiarezza sufficiente a permetterne una formulazione adeguata e cercar di risponder loro. L’errore, la passione, l’anacronismo, la lacuna d’informazione, la contraddizione sono sempre in agguato: felici presenze del resto, in quanto il loro continuo intromettersi nel discorso storico costituisce uno splendido alibi per quanti si ostinano a credere che, se quelle cose non esistessero o fossero con sicurezza eliminabili, la realtà effettiva diverrebbe davvero ricostruibile irreprensibilmente e quindi comprensibile.
Questo di Marco Patriarca è un Federico storico, se badiamo agli episodi evocati e ricostruiti; e al tempo stesso non lo è, come per altri versi – e ad onta della monumentale documentazione – non lo era neppur quello di Kantorowicz. Nemmeno quando ancora gli storici non scrivevano essenzialmente per vincere i concorsi universitari o per far un po’ di soldi, la storia era “scienza pura”: si scriveva di storia, anche allora, per molti motivi, e quello del servizio disinteressato alla verità scientifica è stato da tempo relegato nella soffitta delle anticaglie evoluzionistiche. Federico resta in verità anzitutto la metafora di una cifra interiore, è il nome dato a un aspetto dell’Io di chi scrive e un ponte (o una sfida?) lanciato verso chi legge. Forse, proprio l’aura di Uomo Universale che in lui riconosciamo costituisce l’elemento decisivo, quello che ci aiuta a riconoscersi nella sua storia e a proiettare le sue vicende su quelle di noi tutti, a farcele apparire paradigmatiche.
Marco Patriarca insegue il suo enigma: dalla Terrasanta alle guerre d’Italia, dalla quiete delle regge mediterranee alle ore cupe dello sconforto. Dai perduti splendori di Gerusalemme all’affetto di un figlio perduto anch’egli, tutto quel che sembra restare nelle mani del Signore del Mondo è soltanto – miseriae regum –, alla fine, un uccelletto da infilare nella manica di un abito monastico. La psicologia del profondo ci ha insegnato che l’uccello è la metafora dell’anima. Anche i re sono, alla fine, una ben poca e fragile cosa. Eppure, in filigrana dietro Federico, si profila il suo contemporaneo più grande, Francesco d’Assisi: e noi sentiamo intensamente questo XIII secolo come centrale del nostro essere umani ed europei del XX. Il secolo XIII, come momento nel quale il tentativo di autocomprensione dell’uomo ha toccato vette e profondità mai tentate prima. Francesco, Al-Kamil, Federico, Luigi di Francia, Tommaso d’Aquino e, alla fine del secolo, Dante. Non solo personaggi storici: ma anche dramatis personae della nostra cultura, presenze irrinunciabili, senza le quali non saremmo e non potremmo definirci quel che siamo e ci definiamo.
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