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IO SONO TE
Sergio Urbani


Introduzione
Alessandro Natoni

Qual è la percentuale vocale del vostro nome?
È questa una delle tante domande che vi porrete dopo aver letto Io sono Te di Sergio Urbani, affermato autore e regista teatrale, qui alla sua prima esperienza come romanziere, sebbene ciò che si apre davanti ai nostri occhi sembra piuttosto il testo di un navigato scrittore.
Certamente, la maturità raggiunta nel comporre e dirigere opere teatrali proprie ha giovato al «Maestro» Urbani, che qui mette sapientemente in scena una storia di altri tempi, come ora se ne leggono di rado. In questa sede, ci sembra necessario e doveroso premettere che il romanzo di Urbani si articola e si compone di più livelli narrativi e, così, questa breve introduzione è da considerarsi più come un tentativo di accompagnare il lettore nei suoi primi passi verso la comprensione del testo piuttosto che tentare di formulare una sua sintesi.
Nella sua più semplicistica interpretazione, Io sono Te è fondamentalmente una grande storia d’amore, per quanto non nel senso romantico del termine. È la storia d’amore tra Filippo, proprietario di una piccola agenzia di viaggi, e suo figlio Lorenzo, bambino prodigio e di raffinata fantasia. Filippo, padre giovane e premuroso, si dedica anima e corpo al suo adorato «Lollo», vivendo in totale osmosi con lui: lo stimola, creando storie e giochi, assecondandone la sfrenata immaginazione, e lo protegge, pur non senza rimorsi, dalle attenzioni indiscrete di chi, per gelosia e invidia, potrebbe intaccare la sua innocenza. Iconica è la scena in cui Filippo, trovandosi ad una festa con «Lollo», gli permette di suonare un pianoforte soltanto dopo aver chiuso la porta del grande salone, come a voler lasciar fuori una realtà avida che tutto divora, e poter così godere in solitudine del prezioso dono del figlio.
Sin dalle prime battute, Filippo risulta essere un padre diverso, giovane sì, ma con un’esperienza e una consapevolezza tali da renderlo estremamente riflessivo, complice ed empatico verso ciò che di meraviglioso possiede. Forte è il contrasto generazionale con i «nostri padri», che sembrano in netta contrapposizione con la figura stessa di genitore. Filippo è anche lui un figlio, abbandonato dal padre che lo ha lasciato, ancora piccolo, per una donna. Vi sono padri violenti e stupratori, padri indifferenti o di circostanza, padri potenziali, che vorrebbero esserlo, ma non possono. A quest’ultima categoria appartiene Aristide, proprietario del ristorante in cui Filippo ha trovato lavoro durante gli anni universitari. Di fatto, vera figura paterna del protagonista.

Il contrasto tra vecchio e nuovo, tra passato e futuro, tra antico e moderno è un tema ricorrente nel romanzo che trova la sua più alta espressione nella meravigliosa Favola per Lollo, creata e scritta da Filippo per Lorenzo. I Gamberi Parlanti sono esseri speciali che nascono vecchi e crescono giovani, in un passaggio dal futuro al passato che li rende estremamente saggi. Leggendo la favola, si coglie la frustrazione che gli uomini provano nel vivere la loro realtà, in cui creano solo un passato che ormai rimane fisso ed immutabile e che, per un crudele gioco del destino, non può e non pretende di insegnare nulla dato che il futuro è un costante presente.
Filippo è una persona inquieta, tormentata, costretta tra un passato da dimenticare e un presente estremamente incerto, determinato anche dalla grande instabilità economica che si va via via delineando. Siamo nel primo decennio degli anni duemila, e la crisi si affaccia in Italia falcidiando piccole e medie imprese, o occupazioni che non hanno una immediata resa economica. Emblematica è la denuncia alla miope politica italiana nei confronti della ricerca medica, rappresentata dall’emigrazione di Paolo, biologo e miglior amico di Filippo, cervello in fuga in cerca di un miglior «presente» all’estero. La stessa attività di Filippo è messa a rischio dall’avvento della prenotazione «fai da te», resa possibile dall’avvento di una inesorabile tecnologia a cui ci si rivolge sia per le precarie condizioni economiche, che per la pigrizia, i condizionamenti e le influenze che il tempo definirà di lì a poco «social».
Il tormento di Filippo non ha però solo un’origine sociale. È molto più profondo, generato da un passato che si vorrebbe dimenticare ma che, inesorabilmente, si insinua nell’anima e nel corpo del protagonista, consumandolo e logorandolo. Da qui nascono i suoi travagli psicologici che trovano la loro più alta espressione nel mefistofelico capitolo 7, Il Clown, a mio avviso uno dei capitoli più belli. È qui che la conoscenza del protagonista si fa più profonda. È qui che si palesa il tarlo di quel morbo che, infestando il piano onirico e reale, corrode l’anima di Filippo.
Esistono, tuttavia, delle cure a questa incessante sofferenza interiore. La prima si chiama Lorenzo, la seconda Amicizia. Io sono Te, infatti, è e vuole essere anche una grande storia di amicizia. Anch’essa di altri tempi. Non filtrata dai «social», non essendo allora ancora entrati nel mercato i telefonini intelligenti. Questa amicizia è fatta di interazioni fisiche, nelle quali si può comunicare anche solo con uno sguardo, di colloqui verbali e non scritti, in cui si possono apprezzare tutte le diverse tonalità e sfumature della voce di chi sta di fronte. Non ci sono falsità o ambiguità, ma incontri e dialoghi ricchi di emozioni.
Chi ha vissuto quegli anni non potrà non provare una nota di nostalgia per le ore, i giorni o addirittura i mesi di attese per incontrare o riabbracciare i propri amici. Era il tempo in cui ci si telefonava brevemente per organizzare un’uscita o sincerarsi dello stato dell’altro. Quello in cui si aspettava pazientemente l’ora stabilita dell’incontro alimentando così la voglia di parlarsi, di vedersi, di viversi. Risulta complicato spiegare, a chi non conosce tali dinamiche, cosa si provasse in quelle occasioni così speciali. Urbani lo fa, e in maniera sublime.
Toccanti sono le pagine in cui l’autore descrive i momenti condivisi da Filippo e dal suo amico Paolo, come ad esempio nel capitolo 14, Pennelli nel sottoscala. Il loro è un rapporto profondo, speciale. Sono amici che conoscono tutto dell’altro, i propri drammi interiori, i propri sogni. Si supportano, si incoraggiano e si comprendono come solo i veri amici sanno fare.
I personaggi vivono costantemente il conflitto tra chi ha ereditato i troppi privilegi di una casta sociale fin troppo tutelata, e chi, come loro, è costretto ogni giorno a combattere per «tirare avanti». Emblematica è la descrizione di come la loro generazione, tradita da una classe politica tronfia delle proprie promesse mai mantenute, si ritrovi a vivere un presente disarmante, fragile e inconsistente, fuori da ogni schema politico e sociale. Per fortuna, ci permettiamo di aggiungere. Perché queste debolezze sono solo apparenti e ciò che li rende persone e, soprattutto, amici è solido e genuino.
Non è un caso che il ritrovo del gruppo di amici di Filippo sia il teatro, la forma più alta di aggregazione artistica, primo amore dell’autore. Ed è nel teatro, appunto, che le loro vite si distaccano dalla realtà degli uomini e diventano altro, capaci di esistere in quel presente futurato che è possibile solo in «Contraria», l’isola dei Gamberi Parlanti. Nel teatro, o meglio nell’opera teatrale, così come in «Contraria», sogno e realtà si compenetrano. Il tempo si dissolve, le anime diventano immortali. Sebbene in tutto ciò Filippo trovi la quiete e l’equilibrio di cui necessita, il riaffacciarsi di un ricordo dimenticato, riflesso negli occhi di Lorenzo, e l’incombere di un dramma inaspettato, scolpito nella magrezza di Paolo, riaccendono i conflitti interiori del protagonista, destabilizzando e minacciando i suoi agognati sogni, superstiti di un passato tanto oscuro quanto spietato. Perché, in fondo, rimaniamo uomini e si può essere Gamberi Parlanti solo per poco, come ci insegna Giulia, sensibile e intraprendente, un po’ adulta e un po’ bambina, protagonista della favola di Filippo. E, quindi, la speranza è che un giorno si possa essere come lei, così forti da cambiare e determinare lo scorrere del tempo e con esso noi stessi, diventando più saggi, più consapevoli, più responsabili.
Il tutto è magistralmente orchestrato da uno stile impetuoso ed evocativo, ricco di metafore, che, con uso sapiente della prima e della terza persona, riesce a mescolare i diversi piani esistenziali, intrecciando sogno e realtà in un cappio che stringe il lettore tenendolo saldamente appeso all’incedere degli eventi narrati. Notevole è il capitolo 17, L’altalena, dove il dialogo tra i personaggi messi in scena dalla compagnia teatrale in cui recita Filippo, si fonde con quello tra Paolo e Giulia, come a voler creare un universo parallelo.
Il testo è incorniciato da una struttura semplicemente perfetta. Il romanzo si compone di sette parti, sette colori che simboleggiano le emozioni dell’anima. Sette, un numero completo, totale, simmetrico. Tre parti iniziali (Nero, Bianco, Viola) e tre parti finali (Giallo, Blu e Rosso) che premono e tendono verso il centro, il Verde, I Gamberi Parlanti. Le due anime del romanzo sono perfettamente speculari, riflessi l’una nell’altra. Inizia con un sogno e si conclude con la fine del sogno, o forse viceversa, chissà! Solo i Gamberi Parlanti ne conoscono il segreto, e possono fornirci, solo a determinate condizioni, il codice.
A voi rimane la chiave, sempre che abbiate la giusta percentuale vocale.