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Francesco Mancuso
Ho conosciuto Delfina attraverso due romanzi storici, la Contessa di Salasco, le imprese di una ribelle del Risorgimento partecipe della spedizione dei Mille al fianco di Garibaldi, e NN di SS, la terribile storia della fabbrica di bambini ariani messa in piedi in Norvegia, il progetto Lebensborn, segno plastico della ferocia nazista, due storie poco conosciute portate alla luce dalle parole di Delfina, sono stati incontri delicati, come l’autrice. Ora cambia registro e scrive quattro racconti “gialli” che hanno come protagonista il commissario Mascioli che opera nella Tuscia, terra antica, densa di storia e di misteri, un commissario lento, tutto intuito, affatto convinto dei nuovi mezzi che la tecnologia mette a disposizione delle indagini, pur senza snobbarli; fatica con il mondo femminile, una tragedia lo ha colpito e segnato nel profondo dell’anima, e, a sorpresa, sodale di Anemone che non gli fa mai mancare il suo sostegno acquatico. Uno strano pesce rosso che abita in una boule con alberello di plastica, ogni volta che l’acquatico vede in difficoltà il suo amico terragno gli segnala la via da seguire, lo fa pinneggiando strane movenze quando il commissario rientra a casa e, appena aperta la porta, lo va a salutare. Li ho letti piacevolmente, i personaggi sono tracciati con la semplicità che Delfina sa far scorrere senza che scadano in banalità, per ognuno di loro ho pensato che, complicando lo sviluppo dei fatti, potrebbero diventare quattro libri, ci sarebbe materia per quattro fiction televisive. Sono un appassionato del genere “giallo”, sono un frequentatore seriale di canale 38 con una passione travolgente per Astrid e Raphael, per Vera, per Alice Nevers, difficile che ne perda una puntata. Le loro storie si dipanano nelle anse dell’esistenza delle persone, tratteggiando risvolti psicologici, ferite antiche dell’anima, violenze che abitano i cuori per vendetta o per potere, o per trenta denari, e tutto si svolge dentro le fatiche e le gioie in cui le ispettrici si trovano a vivere mentre sono all’opera per arrivare alla conclusione delle indagini, per svelare il mistero che, fino all’ultimo istante, avvolge lo spettatore. Credo che il bello del giallo sia proprio in questo, che alla fine, pur nella tensione, nell’ansia, a volte nella paura che suscita, “vince” sempre il “buono”, il criminale viene sempre scoperto e punito, forse in questo risiede la sua forza attrattiva; devo però “confessare” che ho un problema con Barnaby da quando, in un racconto, sono sfilati cinque morti, quasi sei, la media è tre-quattro, troppi, anche per un amante del giallo come me. Delfina segue questo schema, il delitto sì, ma quasi un’appendice, forte scorre la vita che, come si sa, riserva sempre sorprese. Così s’incontra Rosina, vuole bene al commissario ma c’è sempre qualcosa che s’intromette tra loro per impedire di giungere insieme al “porto”, s’incontrano i suoi attendenti, Acquafresca e Cipolla, nomi gastronomici. L’autrice si diverte a segnalarci ricette di quelle terre, come faceva Montalbán accompagnando a tavola il suo Pepe Carvalho, anche lui solitario sociale di sé stesso, o Camilleri con Montalbano e la cucina siciliana, erede di quella araba. Mai dimenticare comunque Anemone, è lui l’occhio acquatico del commissario, l’occhio limpido che sa vedere dove il pregiudizio non sa arrivare. Quattro racconti d’acqua, leggeri, divertenti, scanditi da coriandoli di segni che abitano il nostro cammino in questo nostro viaggio sperimentale, colpisce quello sulla parità di genere tra calembour e qualche “cedimento” a stereotipi mai scardinati. Grazie Delfina.
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