«non prefazione» di Srgio G. Grasso
È un fatto: pochissimi leggono la prefazione di un libro oltre l’autore. Tra i pochi ci sono i critici e i recensori che sperano di trovarvi quanto basta per esimerli dalla fatica di leggere tutto il libro. Il vostro lavoro, invece, merita di essere letto da cima a fondo, perché oltre ad essere redatto con garbo e competenza, fa emergere chiaramente il profondo legame tra alimentazione e struttura sociale. Vi è dentro uno spaccato di vita tarquinense (non dissimile da quella di tanta parte degli antichi borghi d’Italia) che pur non essendo lontano nel tempo è tuttavia remoto nei suoi valori e nelle sue pratiche. Lo era ancor più nei primi anni ’80 del secolo scorso, quando sull’onda della prospettiva globalizzante dei mercati, economisti e sociologi avevano dato per spacciati i prodotti del localismo mediterraneo e, con loro, buona parte dei sistemi agroalimentari locali; oggi, dopo trent’anni, gli antichi valori hanno trovato conferma nelle radicate abitudini degli italiani e nella resistenza a cambiarli. La lettura del vostro manoscritto mi ha portato a una serie di riflessioni che sottopongo a voi e ai vostri lettori non come prefazione ma come istigazione a comprendere.
Del nostalgismo gastronomico
Il nostalgismo e il fondamentalismo sono malattie infantili ad alta endemicità: spesso subdole, sempre violente, talvolta asintomatiche. L’integralismo – non solo quello religioso – si annida nelle società che negano il progetto di Umanità fondata sul Diritto e la libertà. Non fa differenza il credo: lo stolto obbedisce ogni volta che l’urlo “Dio lo vuole” si alza dalle moschee, dalle cattedrali o dalle sinagoghe, unica voce su tutte le voci. Il mercato è una divinità contemporanea che occupa il posto della verità e nel cui nome gli uomini che governano danno esempio agli altri, provocando conflitti non negoziabili, promuovendo la guerra, la violenza, l’esclusione, la discriminazione, l’individualismo e la distruzione della natura. I seguaci del Mercato pregano seguendo le scritture (contabili) e si considerano popolo eletto: in Gold we trust. A far da garzoni – malati inconsapevoli delle medesime patologie – stanno quelli che frequentano pagine di giornali e studi televisivi inalberando lo stendardo del si-stava-meglio-quando-si-stava-peggio. Fomentano un millenarismo oscurantista che nega ogni possibilità di evoluzione e di sviluppo, che vede nel progresso la perdita di controllo dell’intero sistema. E il cibo e l’agroalimentare, non fanno differenza. Basti pensare a certi circoli di attempati e annoiati signori che si sono investiti della missione di esaltare un passato gastronomico insulso e improponibile, scagliando anatemi contro chi osi interpretarlo con una briciola di logica contemporanea, lontana da – seppure attenta a – tutte le emergenze figlie di un epoca che tutti ci auguriamo non torni più. Quella in cui non esistevano frigoriferi e autoclavi, in cui si lavorava come bestie, si viveva al freddo, si mangiava poco e male, si moriva di pellagra o di “mal sottile”. Amano i residui fossili e le archeologie alimentari – e fin qui poco male chè lo studio, la comprensione del passato serve a capire il presente e a costruire il futuro – ma son pronti a insorgere sdegnati contro il ristoratore o la casalinga che fa un battuto senza lardo o metta le verdure in un mixer. Si disgustano davanti a una pigiatrice Vaslin perché il vino buono s’ha da pestare coi piedi, si schifano dell’olio extravergine trasparente perché non ha decantato negli orci di terracotta. Si ergono a paladini di un penoso machismo gastronomico addirittura rimpiangendo il formaggio con i vermiciattoli (che rappresenterebbero ahimè la parte più gustosa…). Questi cattivi maestri si ergono a difensori non della tradizione ma dell’immutabilità e pontificano di “prodotti di nicchia” fingendo di ignorare che nelle nicchie si son sempre messe le immaginette dei morti.
Del terrorismo alimentare
Tutti gli animali mangiano ma solo l’uomo cucina. Cuocere è il simbolo della nostra umanità, ciò che ci differenzia dal resto del mondo animale. Mangiare è quasi sempre evento collettivo (in questo, abbastanza diverso dall’atto sessuale) in cui il cibo si riveste di significati simbolici propri della socialità e del ruolo di ogni componente del gruppo. Il bisogno di carburante può essere soddisfatto con una dieta “minimalista” composta da erbe, semi, radici e bacche, così com’è stato per molti milioni di anni. Ma un risultato di sopravvivenza può anche essere raggiunto ricorrendo alle “pillole” che (per nostra fortuna) sono prive di corporeità alimentare e non danno alcun senso di sazietà e appagamento. Fra questi due estremi culturali si è scatenata negli ultimi venti secoli una infinita, lunga e quanto mai pittoresca serie di teorie e pratiche, che vanno sotto il nome di Gastronomia, etimologicamente l’arte di governare lo stomaco, che è cosa ben diversa dal puro calcolo nutrizionale, materia che fa lanciare gridolini di gioia agli esperti in scienza dell’alimentazione, che parlano in medichese col bilancino in mano, che sparano a zero contro i formaggi, il burro, i salumi, i grassi animali, le carni rosse e quelle di maiale, perfino i prodotti avicoli allevati in cortile e nell’aia di casa. Incitano alla paura della tavola, fomentano all’anoressia. Fanno marketing per i loro studi professionali preparandosi una clientela di malati da guarire a suon di farmaci e parcelle.
Della globalizzazione
Scrivo i miei articoli su un clone di computer americano, con microchip fabbricati a Taiwan. Li leggo su uno schermo coreano montato da lavoratori del Bangladesh, trasportato da cingalesi, sbarcato da contrabbandieri greci e vendutomi come prodotto italiano a Lugano. Questa è la globalizzazione: un’anomalia epocale. Come fu per l’energia atomica, gli esiti del suo potere distruttivo (sulle culture, sulla biodiversità, sulle coscienze) sono molto più palesi di ogni opinabile tornaconto. In un’ammucchiata di potere, finanza e comunicazione il “globale” accomuna la foresta amazzonica agli OGM, la barriera corallina al petrolio, la politica mondiale ai giornali, la TV al clima, il gorgonzola alla satira. Tutto è in vendita al miglior offerente e senza che il buondio ne abbia autorizzato il commercio. Resta l’amara sensazione di essere tutti spendibili come lettori e acquistabili come consumatori. In ogni parte del mondo un individuo ben farcito di denaro – chettifrega fatto come – può diventare proprietario dell’acqua di una sorgente e venderla a prezzo centuplicato a chi ne ha bisogno vitale. Dovunque c’è sempre qualcuno che può comprare la nostra vita, i frutti della natura, le sementi prodotte in millenni di storia dal lavoro dei contadini. La globalizzazione, in se non ha nulla di negativo. Inopportuno è l’uso distorto che si fa di questo termine, confondendo il pensiero globale con la mercificazione del mondo. L’economia è solo parte di un sistema complesso e i processi di globalizzazione (quella vera, buona, utile) mirano ad allargare l’accesso ai canali informativi, a valorizzare le differenze locali per poterle proiettare in un mondo compiuto, senza appiattire i gusti e le usanze. Alle logiche della globalizzazione finanziaria e delle omologazioni culturali si contrappone la rilevanza, non solo economica, dei prodotti agroalimentari e della cucina del territorio, portatori di tessuto/vissuto sociale. Non tanto le DOP o le IGP – alla cui reale eticità si stenta sempre di più a credere – ma i mille ricettari locali, alle centinaia di “magnifici sconosciuti” che gli artigiani del gusto tengono in vita a costo di immani sacrifici. Le imprese farmaceutiche inventano le malattie, i petrolieri concepiscono le guerre, mentre nel nome di una democrazia tanto globale quanto gaiamente latitante, anche i fiori piangono. E noi continuiamo a credere che sia ancora rugiada.
Della civiltà contadina
È l’agricoltura di oggi quella che farà mangiare i nostri figli. La logica di profitto attorno cui ruota l’attuale sistema agroalimentare (che è solo vuota “industria” della terra) se ne frega dei valori etici e rema contro ogni atteggiamento partecipativo e responsabile della prassi agricola e alimentare. Nel breve volgere di qualche decennio la campagna italiana – quella, poca, che non è stata travolta e stravolta dall’abbandono e che non è governata per delega dalla città – è diventata un spazio diverso ed irriconoscibile. Buona parte del mondo contadino di ieri è funzionale a colonizzazioni culturali e finanziarie che fanno leva sui miti bucolici del buon tempo andato, sugli stereotipi dell’aria salubre, del bel paesaggio e dello sport. Un’epoca volgare e insolente ha accantonato la civiltà delle stalle e delle fattorie sostituendola con quella dei capannoni e dei laboratori. Se per cultura si intende anche il cammino della memoria e dei simboli, urge restituire alla campagna gli strumenti per valorizzare la propria rappresentazione culturale. A ben guardare, l’abbandono del mondo agricolo è stato il rifiuto – ansioso ed impulsivo – di un sistema avvertito come immobile e incongruo rispetto alla modernità. Il lavoro rurale è fatica perpetua, spesso violenta, come sa essere violenta solo la natura. Fuggire dagli scenari di sofferenza contadina, dai disagi della campagna e dalle sue barriere culturali significava negli anni ’60 e ’70 riscattarsi da un mondo tenacemente fermo alle origini del tempo, scandito dalle stagioni e dalla quotidianità della stanchezza. Volenti o nolenti, le nostre radici sono nella terra ed è impossibile non subirne il fascino e non intenderne il richiamo. In queste spinte istintive sta la ragion d’essere del turismo-rurale e degli agriturismo. Quanto più la città è fonte di inquietudine (disoccupazione, instabilità, ecc.), tanto più la campagna rassicura. Quando il presente è aggressivo e ci si sente disorientati, la vicinanza di persone e cose “genuine” tranquillizza mentre il passato si veste di dolcezza e nostalgia. Gli aspetti naturalistici e bucolici, i profumi e i sapori della campagna, rispondono all’urgenza di consolazione dei “cittadini” e diventano una disperata e silenziosa protesta contro la standardizzazione imposta dalla logica consumistica. Sostenere e valorizzare l’immagine di identità territoriale attraverso la ricerca e il consumo di queste eccellenze “buone da pensare”, è condizione necessaria per lo sviluppo di tutte quelle aree pronte ad assecondare una forte richiesta di consumo consapevole, a migliorare il benessere degli agricoltori e degli osti, ad accrescere l’autostima della popolazione e, se del caso, affrancare i luoghi dai disagi, dalla marginalità e da forme di colonialismo culturale. La Maremma laziale ha urgenza di rivitalizzare il suo artigianato alimentare, di riscoprire, nobilitare e se del caso attualizzare la cucina della memoria promuovendone la conoscenza e mantenendo la vitale connessione con le risorse turistico-ambientali. Siamo tutti alla ricerca di una soluzione anche posticcia alla nostra fame di riconoscimento affettivo e sociale. La campagna e la natura sono scenari protettivi e rassicuranti che ribadiscono un nuovo bisogno di esotismo: il lusso supremo delle cose semplici.
Delle lobbies agroalimentari
C’è una componente profondamente immorale nell’industria agroalimentare. È quella che tiene in poco o nessun conto l’etica, la tradizione e che se ne frega delle gratificazioni sensoriali del consumatore. La sua connivenza con il potere politico, con i mezzi d’informazione e con una ristorazione distratta e incompetente ha fatto in modo che negli ultimi 30 anni le nostre abitudini alimentari si siano lentamente e progressivamente modificate. In peggio naturalmente. Ci hanno rubato ogni curiosità e buonsenso, soggiogandoci alle logiche e agli interessi di poche, potenti multinazionali del disgusto. Ai nuovi padroni del mercato globale (e del nostro apparato digerente), la provenienza, le caratteristiche e le qualità organolettiche delle materie prime – latte, carni, ortaggi, farine, olive, frutta – poco importano. La stagionatura di un prosciutto, l’evoluzione di un formaggio, l’affinamento di un vino son per loro solo “atti-dovuti”, spesso fastidiosi, che generano impegni finanziari, allarmi batterici, perdite di peso e costosi immobilizzi di materie prime e semilavorati. È comodo affliggersi per un passato che imbarazza, ma l’intelligenza dell’ortolano, del casaro artigiano o del norcino, la sua capacità di leggere dentro la materia, di cogliere l’attimo della perfezione assoluta delle sue creature, rischiano di diventare puro folklore, esercizio di antropologia storica o icone di un mondo che non c’è più. Fiabe e leggende da raccontare non più ai bambini per ingannarli ma agli adulti per consolarli.
Dei cuochi d’artificio
La specie di benessere, che sembra meglio accordarsi con l’umanità, è un buon pranzo in buona compagnia. Lo scrive nella sua “Antropologia Pragmatica” del 1798 Immanuel Kant, filosofo tedesco sicuramente immune da ogni calunnia di epicureismo. In 200 anni molto è cambiato e il piacere sociale e ostentatorio del cibo ha superato l’appagamento e le motivazioni del corpo. Tradizione, tipicità e ritualità si sono sublimati in forme esasperate di “gastrolalia” (dal greco “gaster” = ventre e “lalein” = sproloquiare). Si gusta poco cibo adeguato al nostro benessere, ma se ne discute molto, con ridondanza di ricordi e di pareri – non richiesti – eccitati dal demone del protagonismo. Esibizioni di pornografia-gastronomica imbrattano sempre più colonne di giornali, riviste “specializzate”, siti web, blog e trasmissioni radiotelevisive. Si celebrano le abilità dei guru del fornello e si da lustro ad alcuni cuochi d’artificio, cui una mediocre manovalanza ai tegami ha elargito licenza di stupire e di giudicare. Senza chiedere permesso e senza essere invitati a casa nostra, chef da salotto e osti, nutrizionisti e medici, critici e gastro-nomadi dispensano consigli, opinioni, ammaestramenti, spesso tutt’altro che gratuiti. In un esultanza di onanismo gastronomico che non è solo un’offesa all’intelligenza, ma anche un grave oltraggio alla morale.
Del “genius-loci”
Contrastare l’omologazione del gusto serve a difendere la storia sociale di un popolo e l’identità di una terra. La tradizione e il carattere collettivo non servono a respingere sdegnosamente i condizionamenti ma a capire l’importanza delle intuizioni degli altri. Le tendenze alimentari, le mode e i nuovi stili, cambiano con singolare prontezza, di gran lunga superiore al tempo del nostro adattamento. Ma i contadini – i pochi che son rimasti orgogliosamente tali – vanno controcorrente. Hanno tempi lunghi, riflettono (almeno loro), sospettano (beati loro), non lasciano spazio alla supina accettazione di un’altrui “moneta” tanto “cattiva” da cacciare, prima o poi, quella buona. Additare e ostentare continuità alimentari antiche come la fame, serve anche a riflettere sulle ragioni e le cagioni del secolare isolamento del mondo rurale. È atto di umiltà, pagàno omaggio al “genius-loci” di una terra in cui la fame ha nutrito la storia. Il sistema oggi spaccia l’asettico per l’eccellenza, mentre la tradizione diventa moneta di scambio per disoneste e incolte lobbies politico-alimentari. È ovvio che il lessico gastronomico sopravvissuto nella “Pajatina” o in un sugo di rigaglie di pollo possa confondere i nostri figli, ma tutte queste antiche eredità gastronomiche sono documenti ancora vivi – per quanto?–, attuali – fino a quando? –, capaci di evocare in chi sa intenderne il linguaggio, un mondo di sapori, gesti e suggestioni sempre più remoto e flebile, su cui è possibile e doveroso erigere un futuro diverso da quello che ci stanno costruendo attorno.
Con affetto e stima
Sergio G. Grasso
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