Introduzione
Da bambino, magari nelle sere d’inverno, accanto al fuoco del caminetto, mi piaceva ascoltare con attenzione e interesse le conversazioni degli adulti fino ad addormentarmi, cullato da quelle voci, sulle gambe di mia madre. Tra i tanti racconti che «i grandi» facevano, mi interessavano in particolare i ricordi dei fatti accaduti poco più di venti anni prima, che riguardavano la guerra, l’occupazione tedesca, i bombardamenti, la fame, le sere passate al lume di candela nella grande cantina che faceva da ricovero a tutto il vicinato, al riparo dagli spezzoni lanciati dalla misteriosa «vedova nera». A me sembravano storie di tempi lontanissimi, che quasi stentavo a credere fossero parte del vissuto di chi raccontava, e mi lasciavo letteralmente rapire affascinato da quelle che pensavo fossero nulla più che personali esperienze. Solo più tardi, col cosiddetto senno del poi, dovevo cominciare a ritenere quei racconti delle preziose testimonianze della piccola Storia del nostro Paese, che meritavano di essere raccolti e tramandati nel tempo. Ebbene, una narrazione in particolare tra quelle che venivano riferite dai miei genitori, dai miei zii o dalle persone care che frequentavano la nostra casa, mi colpiva e turbava in maniera del tutto speciale per la sua drammatica tragicità. La cosa che mi restava più impressa e contribuiva ad incutere una sorta di timore, era soprattutto il tono della voce di chi parlava, che di colpo, durante l’esposizione, si faceva pieno di circospezione, passando dal normale volume del suono che esce «di petto», ad un improvviso sussurrare sottovoce, come di gola. E l’esposizione veniva accompagnata spesso da precisi e inequivocabili gesti della mano che invitavano a parlare piano, a stare zitti, a prestare attenzione a cosa si diceva e a come lo si diceva, quasi ci fossero in casa, in quel preciso momento, orecchi e occhi indiscreti e infami, pronti a riferire a qualcuno di cui bisogna avere paura, ciò che il parlante stava dicendo o si accingeva a dire: una verità terribile e nascosta. E dunque quando il raccontare, dal ricordo dei bombardamenti e dei rifugi, cominciava a dipanarsi lungo il suo filo invisibile tra i vari fatti di quel periodo, c’era sempre, tra coloro che prendevano parte alla conversazione, chi interveniva per riportare alla mente di tutti i fatti tragici dell’autunno del ’43 quando, nell’arco di una grigia e piovigginosa settimana novembrina, 17 avieri sardi e 3 giovani capranichesi vennero strappati alla vita dai mitra delle SS germaniche. Qui, giunti al climax della narrazione, quando si palpava sensibilmente la tensione del racconto e tutti ascoltavano in silenzio ed estrema attenzione, improvvisamente, come per dare un segnale di estrema gravità, chi parlava si faceva serio e scuro in volto. Quindi proseguiva con parole misurate, scelte con grande prudenza e, con pause ben studiate, subito gonfiava il discorso di toni fatalistici, di ineluttabilità, di verbi giustificatori. E cercava quindi di spiegare quel dramma con la violenza della guerra e con la barbarie umana, per proseguire poi incerto e timoroso, con pienezza di «dice» e di «chissà», davanti ai nomi indicibili e sussurrati dei possibili responsabili. A questo punto, quando si trattava di sfiorare la verità dei fatti e di riportarla a chi ascoltava, finiva invece per arrestarsi desolatamente, come per bisogno di dimenticare, o meglio, di non ricordare quello che in effetti altro non fu se non un trauma di tutta la Comunità.
Solo da più grande dovevo accorgermi di come questa modalità di raccontare quel fatto, che pensavo fosse causata da una esagerata timorosità dei miei parenti oppure dal retaggio di un ventennio della loro vita in cui il pensiero non poteva essere liberamente espresso se non sottovoce ed al sicuro da infide compagnie, fosse invece comune a molti altri capranichesi. Altre volte, infatti, avrei avuto modo di constatare come persone diverse, quando per ventura si trovavano coinvolte in una conversazione con a tema la strage del 17 novembre 1943, compivano gli stessi gesti, invitavano ad abbassare la voce, cambiavano la postura del corpo, magari per farsi più vicini a chi ascoltava e guardarlo meglio negli occhi come per dare significato più grave alle loro parole. Ed altre volte, infine, la narrazione doveva concludersi con l’evocare, addirittura, castighi di malattie terribili che avrebbero finito per colpire i presunti responsabili, dimostrando l’esistenza di una giustizia divina che avrebbe agito, questa sì!, Imperscrutabilmente ed efficacemente in luogo di quella umana, miseramente impotente.
In pratica, era come se una Comunità intera avesse elaborato una modalità narrativa comune per raccontare una verità ineluttabile che in fondo non era poi tale, con codici verbali e non verbali assolutamente condivisi, per perpetuare il ricordo di uno dei momenti più drammatici della sua storia recente, e trasferirlo ai più giovani come monito e insegnamento.
Primavera 2004. In una sala del Municipio di Capranica, con la collaborazione dei consiglieri comunali Filippo Caterini e Mario Baldi, sono stati raccolti un gruppo di anziani del Paese per realizzare un’intervista collettiva sulla guerra. Spiego loro il senso di questo incontro e della ricerca che sto facendo, ma fatico moltissimo a non farli parlare tutti insieme, tanta è la voglia che hanno di dire e di raccontare. Si sovrappongono l’un l’altro, si correggono, fanno a gara per aggiungere ulteriori e originali particolari al racconto.
Quando li incontro per la prima volta, questi nostri cittadini “archivi viventi della memoria” non si fanno pregare due volte e cominciano a parlare, a testimoniare la loro esperienza. Nel momento in cui scrivo questa introduzione sono ormai tutti morti, ma mi piace ricordarli come fossero ancora con noi, con l’entusiasmo di allora.
C’è Vincenzo Barella, classe 1928: lui c’era insieme a Virgilio Andreotti a Monteromano, quando quel 14 novembre 1943 fu catturato dai tedeschi. Aveva 15 anni e racconta dell’interprete Manetti, il milanese, colui che avrebbe fatto cadere nella rete dei tedeschi i giovani militari sardi sbandati e i tre poveri ragazzi capranichesi. Non tutti parlano della vicenda dei sardi. Per esempio Matteo Zanganelli racconta la storia di Cesare Sonnino e dei suoi figli, una delle famiglie ebree ospitate (meglio sarebbe dire nascoste) a Capranica. Appena tre anni dopo i suoi genitori, Girolamo e Giuseppina, sarebbero stati inseriti nell’elenco dello Yad Vashem, dei Giusti tra le Nazioni. Poi c’è Agostino Cangioli che con lo stile attento e puntiglioso che lo caratterizza, aggiunge precisi particolari ai vari episodi raccontati. Infine c’è Girolamo Baldi, che ricorda la figura di Arturo Maccari e della figlia Eli, interprete del comando tedesco, che grazie alla sua astuzia “…salvò Capranica dalla sicura distruzione”.
Altri non possono venire e, grazie all’allora assessore Pietro Innamorati, li raggiungo a casa. Come Rino Alessi, classe 1924, fratello di Salvatore, della cui testimonianza raccolta quel lontano giorno di primavera conservo una lunga registrazione (la cui trascrizione il lettore troverà nell’Appendice di questo libro), che di nuovo diventa fondamentale nella ricostruzione del rastrellamento dei sardi e che ricorda la figura chiave di padre Usai “…che girava a Capranica pè cerca’ di convince i sardi ad arruolassi nella R.S.I”.
È dall’incontro con questi capranichesi giovani d’altri tempi che nasce l’esigenza di dare delle risposte alla vicenda dell’eccidio dei sardi, per capire il più possibile ciò che in realtà è accaduto ed avvicinarsi (si badi bene, avvicinarsi) a quella che sembra essere ormai una verità perduta. Perché, come si sa, la verità, seppure vada sempre ricercata, è valore molto spesso irraggiungibile. Soprattutto se lontana nel tempo, sepolta ormai con chi sapeva. E se la sua ricerca non serve oggi, in fondo, per capire finanche le ragioni dei carnefici e la loro legittimità, è invece assolutamente necessaria per cercare di spiegare i fatti e la loro dinamica, nonché per dare una risposta almeno ad alcuni dei tanti importanti interrogativi che da questi scaturiscono. Perché tanto ancora su questa vicenda, mi dicevo in quei giorni, ci sarebbe da spiegare, capire, ricordare, raccogliere… da dire… e non certo per scoprire vecchie ferite, o per fare nomi, cui prodest?, Di gente che ha combattuto e collaborato per una causa sbagliata, «dall’altra parte», alimentando polemiche inutili o disturbando il riposo e il ricordo di chi non c’è più. E dunque cosa successe, davvero, quel 17 novembre del 1943? Chi erano e da dove provenivano i militari sardi nascosti a Capranica? E soprattutto, quanti erano quelli che si trovavano a Capranica il giorno del rastrellamento? È esistito davvero il Centro di Raccolta e reclutamento sardi di Capranica? Ed in quali strutture del paese? E perché i sardi rastrellati a Capranica furono passati per le armi, mentre quelli catturati a Blera appena due settimane prima, semplicemente condotti in prigionia? Per quale motivo furono fucilati improvvisamente e frettolosamente nel bosco? Da quale esercito avevano disertato? Forse dal battaglione volontari sardi «Giovanni Maria Angioy» della R.S.I? Esisteva davvero una banda partigiana a Capranica della quale facevano parte Alessi, Andreotti e Baldi? E che relazione ebbe questo gruppo resistenziale con il rastrellamento dei militari sardi? Si può ancora tentare di dare un nome, a quasi ottanta anni da quei fatti, ai responsabili della strage? Si può, insomma, ristabilire la verità, seppure ricostruita da tanti tasselli di un mosaico, oppure la si deve considerare irrimediabilmente perduta?
Municipio di Bracciano, 21 novembre 2013, sala consiliare. Invitato dall’amico Massimo Perugini alla commemorazione dell’uccisione di Virgilio Andreotti e Antemio Baldi, vado in compagnia dell’assessore Pietro Innamorati, del consigliere Mario Baldi e di due parenti di Antemio Baldi: Giancarlo, il marito della nipote Lia, e sua figlia Federica. Ascoltiamo insieme al vice-sindaco di Bracciano, il racconto di Massimo Perugini e dei vari testimoni che si succedono e ci riportano indietro, con il loro racconto, in quei giorni uggiosi di autunno inoltrato. Don Nicola Fiorentini, capranichese e parroco emerito di Bracciano, ricorda le fasi drammatiche del rastrellamento che lui ha potuto vedere, in compagnia di altri preti, dalle finestre della casa di Don Alvaro Orsi, poco oltre for di porta; il novantenne Boezio Ansuini, aviere in servizio all’idroscalo di Vigna di Valle, ci riporta ai frangenti della battaglia di Manziana e dell’occupazione dell’idroscalo da parte dei tedeschi. Lui ha conosciuto personalmente alcuni dei sardi ammazzati, in quanto suoi commilitoni. C’è poi Giacomo Di Filippo. Aveva undici anni quando con un suo amichetto ha potuto vedere, distesi sui tavoli della chiesa del cimitero di Bracciano, i poveri corpi crivellati di fori di proiettile di Virgilio Andreotti e Antemio Baldi.
Dopo la messa, celebrata da Don Nicola, ci spostiamo a via San Francesco d’Assisi, a palazzo Bresciani, dove Massimo Perugini ci mostra i luoghi della carcerazione dei due sfortunati giovani capranichesi. Qui si erano acquartierate le SS tedesche e come nella romana via Tasso, usavano il palazzetto per i loro spietati interrogatori. Era facile per i prigionieri, soprattutto se giovani e ingenui, cadere nella contraddizione in quelle condizioni di pressione psicologica, tentando invano di salvarsi dicendo magari qualcosa di troppo… Quel pomeriggio sta piovendo, proprio come settant’anni prima. È già buio quando ci spostiamo in località Rosario per vedere la carbonaia dove furono messi i corpi dei due poveri ragazzi dopo essere stati ammazzi a bruciapelo. Qualcuno dei presenti dice che gli hanno sparato alle spalle dopo che gli hanno permesso di andarsene dicendogli che erano liberi di tornarsene a casa. Neppure il tempo di girarsi che si sono ritrovati vicini e uniti nella morte. Arrivata in fretta, quasi istantaneamente, tanto è stato il piombo che gli hanno riversato addosso.
Non si può lasciare che il tempo cancelli tutto questo, mi sono detto. Bisogna ricordarlo, sempre.
Ma non era ancora maturo il tempo di pensare ad un libro anche se negli anni, di materiale ne andavo accumulando parecchio. Nel febbraio del 2017 decido di presentare un nuovo punto di vista su tutta la vicenda ad un gruppo di amici. È da quell’incontro che sono nati e poi avviati i «Caffè con la Storia», che abbiamo organizzato insieme ad Antonio Barella e Maurizio Colognola e quindi con Carlo Maria D’Orazi. Ebbene, già in un foglio commemorativo uscito nella primavera del 2004 avevo adombrato che alla base dell’uccisione dei sardi ci fosse un interrogativo ben preciso, l’ennesimo che nasce da questa storia, che verteva su una parola terribile e nello stesso tempo indicibile, perché ignominiosa, che se non giustificava l’esito tragico della vicenda rispetto, per esempio, al rastrellamento dei sardi avvenuto a Blera alla fine di ottobre del ’43, sicuramente poteva invece contribuire a spiegarlo. La domanda da porsi era questa: e se i sardi fossero stati fucilati perché ritenuti disertori? Disertori, è ovvio, dal costituendo esercito della Repubblica Sociale. Dopo tutto, negli atti e nei documenti, di questa parola se ne trovano moltissime tracce ma si preferisce sostituirla con l’uso del termine meno grave «renitenza». Non si trattava, infatti, di ammettere possibile la diserzione dal punto di vista dei vincitori, ma da quello dei vinti, dimenticando che anche questi applicavano come i primi, in maniera da loro stessi ritenuta legittima, le leggi militari di guerra e che queste prevedevano la pena capitale in caso del verificarsi di determinate fattispecie di reato compiute da propri soldati. Ed anche se, in effetti, la diserzione è considerata tale solo di fronte al nemico, perché non percorrere questo filone di ricerca? Perché non cercare di capire se la violenza inconcepibile con la quale si è passati improvvisamente alle vie di fatto, lungo la strada per Bracciano, sia stata originata proprio dall’applicazione del codice penale militare di guerra da parte del costituendo esercito della RSI, seppure per mano tedesca? D’altronde nei bandi di arruolamento firmati da Graziani veniva minacciata l’applicazione dell’art. 144 del codice penale militare di guerra per tutti coloro che dopo essersi presentati si fossero allontanati dai reparti arbitrariamente, anche se questa applicazione estensiva del codice venne contestata addirittura dallo stesso procuratore generale militare della R.S.I., Ovidio Ciancarini, che per tale motivo fu allontanato dal suo incarico.
E dunque, in occasione del 75° anniversario della morte, grazie a Carlo Maria D’Orazi, allora presidente del Centro Ricerche e Studi di Capranica, che si è onerato di organizzare le celebrazioni tra i Comuni di Capranica, Sutri e Bassano Romano, il 17 novembre 2018, presso la Sala Conferenza di Palazzo Doebbing, a Sutri, gremitissima di persone e di moltissimi amici sardi provenienti da Ploaghe (NU), ho avuto modo di presentare nuovamente questo punto di vista anticipando alcuni filoni della ricerca.
Ricerca che non si poteva certamente relegare ad una mera disquisizione su un particolare aspetto giuridico, peraltro di giustizia militare. Bisognava, piuttosto, riprendere in mano tutto quanto si conosceva sulla questione, collazionarlo, metterlo insieme, raffrontare le fonti, integrarle con altre inedite, nel tentativo di sopperire alla ormai fisiologica mancanza di testimoni di prima mano, con le notizie contenute nelle carte dei vari archivi storici.
Ed il tempo necessario a fare tutto ciò non c’era mai…
Mi doveva capitare un lungo periodo di riposo perché davvero cominciassi a fare sul serio. Nella tarda primavera del 2019 è cominciata quindi la lunga ricerca negli archivi, soprattutto in quello del Comune di Capranica che, a dispetto di avercelo disponibile ad una distanza di 10 metri (e forse esagero per eccesso), proprio perché vicino ho ritenuto bene di esplorare per ultimo. E sono tante e interessanti le notizie che ne sono uscite, che ci sarebbe materiale per un secondo libro su tutto il periodo della guerra, ma anche sul ventennio fascista e sulla successiva nascita della vita democratica, almeno fino al 1950.
Pertanto, il prodotto (faticoso) di queste ricerche il lettore lo troverà qui, nelle prossime pagine, al quale abbiamo aggiunto un voluminoso corpus di documenti originali trascritti, di testimonianze orali, di tabelle riepilogative e che serve a completare, per i coraggiosi che avranno voglia di leggerlo, le sintesi che ho cercato di operare nei vari capitoli.
Ora una precisazione. A dispetto delle domande che hanno fatto da mozione a questa ricerca, il lettore non troverà risposte esplicite, né risultati definitivi. Non si concluderà, questo libro, con colpi di scena sensazionali additando a tutti i veri responsabili della strage, che neppure la giustizia è stata capace di individuare, seppure bloccata sul nascere da ragioni incomprensibili e ignote. Molti paragrafi rispecchiano le domande iniziali, cercando di dar loro risposta, ma solo presentando i documenti e le fonti di cui è stato possibile disporre. Molti altri servono per inquadrare la vicenda nel tempo in cui si è svolta, per contestualizzarla il più possibile e trarre, anche da questo, una qualche risposta che possa essere utile a capire. L’invito è quello di interpretare queste informazioni con il rispetto dovuto alle persone citate nei documenti, alle loro travagliate vicende umane, senza accusare nessuno, soprattutto senza giudicare ed emettere sentenze, nella consapevolezza che non siamo noi quelli legittimati a farlo.
Diciamo che quando si parlerà di queste persone, si continuerà a farlo alla maniera capranichese, sottovoce, facendo cenno di ascoltare bene quel che si dice, e con il giusto timore di dire cose inesatte. E chi legge saprà autonomamente trarre le proprie conclusioni, ovvie o nascoste che gli sembreranno.
Infine, un pensiero. Forse è diventato un po’ di moda, negli ultimi tempi, parlare del ruolo della donna nella società e rivendicare per lei un posto di rilievo. Ma forse è anche necessario, nel mondo del banale, non far diventare una banalità il parlare delle donne, perché un posto importantissimo e primario esse lo hanno a prescindere senza la necessità di scomodare artifici legislativi. Perché il coraggio delle donne, a dispetto della loro apparente fragilità, in molti casi è ben superiore a quello degli uomini. E viene dimostrato proprio nelle situazioni di pericolo. Come fu all’indomani della crocifissione di Cristo, quando per prime furono proprio loro, le donne, a recarsi al sepolcro, mentre i suoi discepoli, impauriti e disperati, si trovavano ancora nascosti ed al sicuro delle loro case. Anche la storia raccontata in questo libro ha come protagoniste alcune donne. Sono le donne che affrontano gli uomini che ritengono colpevoli di aver ordito la cattura dei propri figli e dei giovani sardi. Sono le mamme, sono le sorelle che, sprezzanti dei mitra tedeschi, scendono disperatamente in strada per cercare di ritrovare figli e fratelli e riportarli a casa. E sono le donne di Capranica, molte di più di quante si possa pensare, con i loro volti sconosciuti, che comunque immaginiamo dolci e sorridenti, che si fanno madri dei giovani sardi rifugiati, proteggendoli, sfamandoli, e piangendoli nel momento della tragedia. Una mamma soprattutto, in particolare, non si da’ per vinta e come una leonessa si batte strenuamente chiedendo a gran voce e con coraggio, a tutti i costi, giustizia per il figlio morto, per quelli delle sue compaesane, e per quelli di diciassette madri che non conoscerà mai, ma con cui condivide il lacerante dolore della perdita. È la forza di questa mamma ad avermi toccato profondamente e ad avermi spronato nel portare a compimento questo lavoro. Nel parco pubblico di Capranica c’è un monumento ad una mamma coraggiosa, di cui non importa conoscere il nome, importa solo che con il suo coraggio, che dimostra con la mano tesa e aperta, cerchi di fermare il pericolo, la minaccia, il male che a volte per vie imprevedibili tende agguati mortali ai propri figli. Ebbene, a Margherita Liberati e a tutte le mamme, soprattutto a quelle che non hanno paura, sono dedicate le pagine che seguono.
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