Presentazione
Paolo Coppari*
Nel periodo che va dall’autunno del 1943 all’estate del 1944 la provincia di Viterbo fu teatro di numerosi episodi di indicibile violenza e di sanguinosa e spesso gratuita brutalità, inflitte per lo più ai danni della popolazione civile inerme.
Vittime di crimini compiuti con spietata efferatezza dagli occupanti nazisti e dai loro fiancheggiatori fascisti repubblichini furono anche molti militari italiani che all’indomani dell’armistizio si rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi. Come fu appunto nel caso dei diciassette avieri sardi trucidati a Sutri il 17 novembre del ’43, di cui si parla in questo libro.
Secondo un rapporto redatto dai Carabinieri di Viterbo subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, si possono contare almeno una sessantina di episodi di violenza perpetrati dai nazifascisti in diverse località della provincia, che provocarono la morte di varie decine di persone, per lo più civili. Nel rapporto vengono in qualche caso individuati anche gli autori di tali violenze.
Oggi, a distanza di ottanta anni, questo libro giunge da un lato a ricordarci l’importanza della conservazione della memoria di quei crimini, da tramandare alle giovani generazioni affinché sia scongiurata qualsiasi nostalgica velleità di ritorno ad un passato di lutti e rovine. Dall’altro, ci invita a non trascurare ancora oggi, seppure a distanza di così tanti anni, il problema della ricerca della verità, spesso taciuta o, peggio, travisata, o addirittura negata dai sempre più diffusi ed insistenti tentativi di riscrivere e falsificare quelle pagine della nostra Storia.
Ed è proprio qui che risiede a nostro avviso il merito più grande di questo lavoro. Cioè nell’aver voluto raccontare in modo accuratamente e minuziosamente documentato, attraverso una ricerca attenta e scrupolosa di fonti e di testimonianze, una vicenda di cui molto si è scritto e parlato, ma le cui dinamiche reali sono rimaste avvolte da una nebbia di incertezze e di imprecisioni che col passare del tempo hanno contribuito a causarne una frettolosa quanto negligente dimenticanza.
Perché è in questo modo che inizia l’oblio: cioè con l’accettazione dell’ignoranza dei fatti. Ciò che si conosce poco o male viene dimenticato con maggiore facilità, ed in modo più «indolore».
Quello della difesa e della trasmissione della memoria di ciò che accadde in Italia in quegli anni, è un punto fermo nelle battaglie che l’ANPI porta avanti da sempre, e rispetto al quale riteniamo che questo lavoro fornisca un valido contributo.
Così come riteniamo che tra i compiti attuali di tutti i sinceri democratici e antifascisti di questo Paese, oltre a quello di difendere la memoria, di ricordare e far ricordare, ci sia anche e soprattutto quello di capire come e perché certi eventi si verificarono, come e perché certe responsabilità vennero ignorate, o addirittura coperte.
Il nostro è purtroppo, da sempre, il Paese delle stragi senza colpevoli. O di colpe che restano impunite. E non solo di civili inermi, come a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, o alle Fosse Ardeatine. O di giovani militari innocenti, come nel caso dei 17 ragazzi sardi e dei tre giovani capranichesi barbaramente trucidati nel novembre del 1943. O delle tante altre perpetrate in quegli anni dai nazifascisti in varie località del viterbese.
Le stragi impunite sono continuate anche dopo, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. A Portella della Ginestra nel 1947, a Modena nel 1950, a Reggio Emilia nel 1960. E poi ancora negli anni della «strategia della tensione», a Milano nel 1969, Brescia nel 1973, alla stazione di Bologna nel 1980. Solo per citarne alcune.
L’Italia però è, fortunatamente, anche un Paese in cui i principi e valori fondamentali di giustizia e di libertà, contenuti nella nostra Carta Costituzionale democratica e antifascista nata dalla Resistenza, sono profondamente radicati nelle coscienze della maggioranza dei cittadini. Una consapevolezza che è maturata, seppure a prezzo di lutti, di tragedie, di spargimenti di sangue innocente e di inauditi sacrifici, proprio in quegli anni bui e dolorosi del fascismo e della guerra.
Quanto ci viene descritto e raccontato in questo libro è lo spaccato di un’Italia gravemente provata da un ventennio di dittatura, e drammaticamente sconvolta da una guerra ingiusta ed avversata da larghissimi strati della popolazione civile. Che ci parla di un popolo ferito, abbrutito, dilaniato, sbigottito, disorientato. Dalle conseguenze della guerra stessa, ma anche dal comportamento delle autorità militari e civili, allo sbando e totalmente incapaci di assistere le popolazioni inermi e vittime delle angherie degli occupanti.
Tuttavia, di fronte agli abusi e alle brutalità dei nazifascisti, le popolazioni civili si sono spesso ribellate, talvolta in modo aperto e convinto, partecipando attivamente alla Resistenza, oppure in modo meno evidente od esplicito, dando rifugio e protezione ai partigiani, o magari praticando forme di «resistenza passiva».
E va sottolineato come, da molti dei documenti e delle testimonianze prodotti nell’opera di Ceccarini si percepisca il ruolo svolto nella vicenda dalla cittadinanza capranichese nel suo complesso, che si può definire di resistenza, o quanto meno di disubbidienza, di fronte alle prepotenze dell’oppressore nazifascista.
A conferma di questo è significativo il contenuto della Relazione del Sindaco di Capranica al Presidente della Commissione Provinciale Crimini di Guerra del 4 luglio 1945 («documento 8»), in cui si denunciano i crimini e le violenze commessi dai militari tedeschi e la diffusa ostilità dimostrata nei loro confronti dalla popolazione locale, al punto che gli stessi tedeschi non esitarono a ritenere che il paese di Capranica nel suo complesso fosse connivente con la Resistenza e collaborasse attivamente con i comandi partigiani.
Questa pubblicazione vede la luce in occasione dell’ottantesimo anniversario del rastrellamento di Capranica e dell’eccidio di Sutri.
Una ricorrenza che non deve e non può passare inosservata, soprattutto agli occhi delle giovani generazioni, che hanno il diritto/dovere di conoscere i fatti del loro passato recente, soprattutto di quelli che riguardano più direttamente l’ambiente e la comunità in cui vivono.
Oggi più che mai sentiamo la necessità di affermare che la memoria del martirio di quei poveri giovani, nonché delle vicende e dei personaggi che spinsero in vario modo quegli sfortunati ragazzi verso il loro tragico destino, non venga perduta, né costretta dentro i confini di una rituale celebrazione. Ma che divenga altresì materia di studio, di ricerca e di riflessione nelle scuole, e che sia oggetto di discussione nei luoghi di aggregazione e di socializzazione.
La consapevolezza del cittadino dell’importanza delle conquiste di libertà e di democrazia si realizza soprattutto attraverso la scoperta del legame esistente tra passato e presente.
Che questa ricorrenza e questa meritoria pubblicazione giungano dunque a ricordarci come il significato profondo ed autentico delle celebrazioni debba essere quello di conservare e dare valore alla memoria del sacrificio di quanti hanno lottato, combattuto, speso la propria vita per porre fine all’oppressione della dittatura e dare vita ad uno Stato moderno, libero e democratico.
* (A.N.P.I.) Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
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