INDAGINE SULLA CRIMINALITÀ
NELLA COMUNITÀ CINESE IN ITALIA
Francesco Sidoti, Mariateresa Gammone, Mario Ciotti, Manquing Fang
Prefazione di Carlo Mosca
Sono grato agli Autori di questo originale e interessante volume sulla Comunità cinese in Italia per aver contribuito ad eliminare in me ogni residuo di pregiudizio nei confronti di un mondo colpevolmente rappresentato, per tanti anni e salvo poche eccezioni, come intenzionalmente separato dalla società italiana.
Nella distratta narrazione, non solo dei mass media, questo mondo era occupato a curare affari non leciti sotto la protezione di organizzazioni criminali interessate solo a penetrare nel commercio e nell’industria italiana, condizionando lo sviluppo e la stabilità dell’intero sistema nazionale.
Non esito a confessare che il citato pregiudizio non si fondava sulla pur comprensibile arrendevolezza alle fonti da cui provenivano le notizie o le informazioni, quanto su una sorta di indistinta acquiescenza “a quello che si dice”, senza invero neanche sperimentare la curiosità di approfondire la conoscenza di uomini e fatti che, sin da quando ero ragazzo, avevano suscitato in me un profondo, ma disatteso interesse.
Come poter, infatti, dimenticare il fascino collegato ai racconti e ai libri letti sulle avventurose imprese di Marco Polo o sui viaggi missionari del gesuita Matteo Ricci, o la sete giovanile di sapere su quella civiltà e su quella cultura lontana, tanto differenti, ma così avvolte da un alone di mistero connesso forse alla ragguardevole dimensione di un territorio dove, pure oggi, tutto continua ad apparire di dimensioni gigantesche, come la mitica muraglia, o forse collegato alla sperimentazione di un modello politico ritenuto da tanti di difficile attuazione, o forse ancora alla straordinarietà di un popolo dai numeri impressionanti, tanto laborioso e così profondamente pervaso dai canoni della spiritualità orientale.
Anche allora mi rendevo conto della diversità dei due mondi, quello occidentale e quello orientale; ma avvertivo un’attrazione per la diversità e non mi sfiorava alcun pregiudizio.
Poi, l’esperienza e la contaminazione della vita da adulto e la non dolosa, ma comunque accettata, rassegnazione rispetto a modelli di vita meno sofisticati e improntati prevalentemente sul pragmatismo del quotidiano, mi hanno impedito di coltivare quelle antiche curiosità.
Proprio questo –ma penso di non essere il solo ad aver subito tale rassegnazione– non mi ha dato la sufficiente capacità di reagire di fronte a slogan e a imposture narranti le gesta negative di una Comunità, quella cinese, che, secondo quel dire, aveva invaso il mondo, esportando le sue gesta criminali, per mire espansionistiche delle massime autorità del partito comunista e dello stesso governo cinese, in un sistema alimentato da una visione imperialistica contrapposta a quella statunitense e a quella sovietica, con l’intento di far trionfare un modello di comunismo tutto orientato a contrastare il capitalismo, le libertà, la dignità umana e il rispetto di ogni forma di democrazia liberamente scelta dal popolo.
Ovviamente, so bene che la mia cultura e i miei convincimenti, cresciuti nella dedizione assoluta ai principi e ai valori della Costituzione Repubblicana, che ruotano attorno alla dignità della persona e al rispetto di essa, in termini di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, non possono e non potranno mai identificarsi con gli elementi connotanti una diversa cultura politico-istituzionale, in quanto è proprio su quei riferimenti costituzionali che si basa il mio patrimonio identitario al quale non ho mai inteso rinunciare.
Eppure, posto ciò come premessa, questo intendimento esposto e convinto non può, però, conciliarsi contestualmente con alcun pregiudizio che, inconsapevolmente –o forse è meglio dire colpevolmente– ha teso ad escludere dal mio raggio di interesse un mondo così ricco di umanità, di cultura e di valori diversi che, proprio in quanto tali, vanno rispettati e non rifiutati dietro il comodo e ingiusto paravento giustificatorio di una copertura legata alle attività del crimine organizzato cinese presente in Italia o addirittura alla mafia o alle triadi di origine analoga.
Questo perché, in Italia come in Cina, tali aggregazioni criminali costituiscono la degenerazione del sistema dei valori nazionali, la negazione di una civiltà e non ne possono mai costituire l’essenza o il tratto di quella cultura.
Ecco il motivo della mia gratitudine ai professori Francesco Sidoti e Mariateresa Gammone i quali, unitamente con altri appassionati analisti che hanno acutamente sollecitato le significative riflessioni di autorevoli ed esperti rappresentanti delle Istituzioni democratiche repubblicane, mi hanno consentito di uscire dall’oscurità di una non conoscenza e di restituire, soprattutto alla mia coscienza, la visione corretta di una realtà in precedenza inquinata da pregiudizi infondati.
Penso che sia doveroso, preliminarmente, esporre, in breve, alcuni indispensabili dati numerici tratti dal rapporto annuale 2016 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, riportati nella premessa alle interviste curate dai giornalisti Mario Ciotti e Fang Manquing:
1) quella cinese non è la principale etnia presente in Italia, essendo solo la terza nella graduatoria delle nazionalità dei cittadini soggiornanti non comunitari;
2) i cinesi regolarmente soggiornanti in Italia sono 333.986 (l’8,5 per cento dei non comunitari soggiornanti) di cui 86.563 sono minori. Nel 1997, i cinesi regolarmente soggiornanti erano 32.000 (3,5 per cento dei non comunitari);
3) il tasso di occupazione dei cinesi soggiornanti in Italia è del 73,1 per cento. I settori di attività economica prevalente sono il commercio (40,6 per cento) e l’industria in senso stretto (27 per cento);
4) le aree di insediamento più significative dei cinesi sono la Lombardia (22,3 per cento), la Toscana (21,3 per cento) e il Veneto (12,6 per cento) con una concentrazione nelle province di Firenze e Prato dove rappresentano il 18,6 per cento dei regolarmente soggiornanti in Italia;
5) gli imprenditori cinesi sono al secondo posto nella graduatoria dei non comunitari titolari di imprese individuali. Al 31 dicembre 2015, i citati titolari erano 49.048, pari al 14 per cento degli imprenditori non comunitari presenti in Italia.
Questi i dati più significativi del richiamato rapporto ministeriale, sufficienti per meglio inquadrare e dare un concreto significato anche a quanto dirò appresso.
Il primo saggio del libro è stato magistralmente scritto da Francesco Sidoti, criminologo di fama, professore nell’università dell’Aquila, raffinato cultore delle scienze investigative e della sicurezza. Il saggio, intitolato La criminalità in Italia e in Cina, è una miniera di informazioni e di citazioni bibliografiche, di acute riflessioni teoriche, nonché di incisive affermazioni che evidenziano le peculiari, vaste e originali conoscenze dell’Autore. Questi entra, senza alcuna esitazione, nel cuore del problema criminalità, affermando che in Cina esistono forme di crimine organizzato, ma non di stampo mafioso. Ciò in quanto le medesime forme non sono in grado o non intendono o sono impedite nell’infiltrare il sistema del potere politico, né ci provano a controllare il territorio o parti di esso, visto che quel Governo è fortemente determinato ad annientare, in qualsiasi modo, anche il solo tentativo, da parte di qualunque organizzazione criminale, di accreditarsi come mafiosa.
Del resto, che le mafie non esistano neanche a Cuba è una constatazione facile, dal momento che le mafie –afferma Sidoti con lucida consapevolezza– possono esistere solo dove c’è una democrazia ed ecco perché sono presenti nel nostro Paese. Questa constatazione, che può apparire ovvia ad un primo approccio e ad un lettore disattento, in effetti non si rivela tale quando viene ad essere collegata con il successivo passaggio curato dall’Autore, secondo il quale una differente e sostanziale connotazione dei due sistemi politici non ha impedito alla Cina e all’Italia di aver combattuto e continuare a combattere le mafie, riscuotendo importanti successi riconosciuti in tutto il mondo. Attestano gli sforzi enormi e i sacrifici che, soprattutto in Italia, è costata la lotta a questa perniciosa forma di criminalità, in termini umani, economici, sociali e istituzionali.
Sidoti si avvale delle dichiarazioni di illustri personaggi come il presidente del Senato Grasso e il presidente dell’Autorità Anticorruzione Cantone, magistrati che hanno guadagnato sul campo stima e considerazione e che oggi rivestono delicati ruoli istituzionali, per sostenere che il Governo cinese è fortemente impegnato nel contrasto alla corruzione da molto tempo, pur sussistendo in questo campo difficoltà di classificazione omogenea tra i due Paesi, per i tratti distintivi delle stesse organizzazioni criminali operanti nelle due Nazioni e per il rischio di catalogare fenomeni differenti, pretendendo di utilizzare gli stessi contenitori teorici.
La cultura dell’Autore del saggio, scientificamente strutturata grazie anche alle tante esperienze maturate all’estero, gli consente di cogliere pienamente le dinamiche del crimine, che ovunque si è diffuso in maniera, e tempi diversi, come pure di percepire adeguatamente le tecniche investigative più moderne e l’impiego dei sistemi sempre più sofisticati idonei ad individuare e contrastare i responsabili dei crimini, i quali, dall’America Latina all’Asia e dall’Europa all’Africa, riescono a godere di forme di coordinamento transnazionale, confidando sulle obiettive difficoltà delle agenzie di sicurezza che non sempre agiscono raccordate fra loro e comunque, in particolare quelle dell’Occidente, sono soggette ai vincoli della tassatività delle previsioni legislative ispirate ai valori e ai principi democratici e ai canoni derivanti dalla tradizione e dalla cultura illuministica.
Sidoti coglie i diversi profili del crimine in Occidente e in Oriente, in un contesto in cui non è la religione della legge, ma la religione dell’armonia a reggere l’ordine sociale in quell’autentico spirito del confucianesimo e dove, quindi, i temi della pace e dei doveri sembrano essere prevalenti nell’accreditare e nel pretendere l’uso di qualsiasi strumento in grado di tutelare convenientemente questi ultimi.
Da qui la certezza, per l’Autore del primo saggio, di ritenere necessario il distinguere le organizzazioni criminali tra quelle politicamente orientate e quelle politicamente neutrali, e nell’osservare che le stesse triadi cinesi, lontane dal poter essere classificate come mafie perché carenti degli elementi caratterizzanti l’organizzazione mafiosa, sono state pure esse decisamente sradicate in Cina dall’avvento del Partito Comunista e sono state costrette a spostarsi altrove, a Taiwan come a Macao e a Hong Kong, in Birmania e in Indonesia, nelle Filippine, in Thailandia, in Europa e negli Stati Uniti, ma hanno sempre conservato la loro caratteristica peculiare, quella del perseguire, come loro scopo, il profitto e non il controllo del territorio o il condizionamento delle scelte della politica.
Nel tracciare questo quadro che non trascura preziosi riferimenti storici e conferma la solidità degli approfondimenti sostenuta da una lunga e rigorosa ricerca, Sidoti avverte che il sistema politico cinese non soltanto ha colmato un ritardo di secoli in molti settori dell’economia e dell’industria, ma ha scavalcato e vinto la concorrenza di tanti Paesi dell’Occidente in ambiti scientifici e tecnici avanzati. Anche da un punto di vista criminologico, la storia cinese è strabiliante perché, una volta cancellate e represse l’uso della droga e l’organizzazione delle triadi, essa ha tutelato la pace sociale e ha garantito quell’ordine pubblico e quella sicurezza che ha facilitato il progresso e la crescita economica, a livello di comunità nazionale, ma pure dei singoli.
Ovviamente, Francesco Sidoti è ben conscio che le tecniche di lotta utilizzate in Cina per sconfiggere la criminalità non possono essere esportate in Italia per le ragioni connesse all’essere quest’ultima una moderna democrazia repubblicana fondata sui valori e sui principi proclamati dalla Costituzione, ma è pure evidente che la Cina non ha l’ambizione di insegnare agli altri come affrontare le questioni criminali. Ogni Paese deve essere libero di affrontare le sue emergenze nel rispetto dei canoni presenti nella propria cultura giuridica e senza alcuna pretesa di imporre i propri standard di civiltà, pur potendo auspicare, questo è lecito, l’affermazione dei propri e di nuovi valori.
In ogni caso e a prescindere da questioni valoriali –non di poco conto comunque per chi scrive– Cina e Italia, nelle affermazioni di Sidoti, si distinguono entrambe per il forte impegno nella lotta tesa all’affermazione della legalità, e le vicende dei successi italiani contro il crimine organizzato sono parallele a quelle dei successi cinesi, pur permanendo nei due Paesi ancora problemi legati al crimine e alle sue conseguenze in termini di sano sviluppo della società e, quindi, avendo entrambi la percezione di quanto resti da fare.
È chiaro, infatti, nelle riflessioni del professor Sidoti che il Governo cinese intende costruire un Paese capace di governare meglio la sua modernizzazione, in un modello di sviluppo civile che si affranchi da quei livelli di criminalità e di corruzione che hanno accompagnato la globalizzazione, destinando così la massima priorità proprio al contrasto della corruzione, considerata l’alleato migliore dell’affermazione mafiosa.
Ma ciò è altrettanto evidente nelle politiche di contrasto sviluppate in Italia che da Paese esportatore è diventato importatore di criminalità proveniente dagli altri Paesi del mondo.
Sidoti si sofferma, poi, intenzionalmente, sull’esistenza di condanne per associazione mafiosa avvenute negli anni Novanta in Italia, ad opera dei Tribunali di Roma e Firenze, nei confronti di gruppi criminali cinesi, pur non rinunciando ad insistere, in una chiave sostanzialmente critica nei confronti di queste decisioni, sulla necessaria distinzione dei fenomeni riguardanti la mafia, il crimine organizzato e l’ordinaria associazione a delinquere, distinzione da fondarsi sui richiamati fattori tra cui spicca, per acclarare la natura del delitto di tipo mafioso, l’esistenza di un rapporto simbiotico con segmenti del potere politico e per determinare la differenza tra crimine organizzato e ordinaria associazione a delinquere, il carattere della stabilità della struttura che, nell’ultima fattispecie citata, non sussiste, essendo l’associazione limitata al raggiungimento di un obiettivo, senza una stabilità organizzativa durevole nel tempo.
Alle riflessioni del professore, famoso in Italia per aver attivato con successo, presso l’Università abruzzese dell’Aquila, il primo corso di laurea in scienze dell’investigazione, non sfugge che il termine mafia viene utilizzato spesso o a volte, non solo in Italia, ma pure in altri Paesi, a scopo sensazionalistico o in maniera metaforica o comunque per obiettivi difficilmente definibili, se non in una logica strategica tendente a danneggiare o a mettere in cattiva luce quella comunità cui si attribuisce la matrice del fenomeno delittuoso.
A Sidoti, però, che è un raffinato cultore della materia dell’intelligence ed è autore di innumerevoli e apprezzati scritti nella specifica disciplina, è ben chiara l’efficacia della disinformazione e della controinformazione.
Ed è lo stesso Sidoti a ribadire, nel costante rigore scientifico della sua analisi, in ogni parte scrupolosamente condotta, che esistono fenomeni criminali di cinesi coinvolti nella commissione di delitti concernenti prevalentemente l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione, la contraffazione e l’estorsione. Il che, di per sé, non è una buona notizia, ma non è certamente la notizia di una penetrazione mafiosa che si aggiunge alle altre che il nostro Paese già subisce e che quotidianamente affronta, con determinazione e fermezza, per contrastare il loro elevato livello di pericolosità. In tal senso, Sidoti avverte il lettore che la comunità cinese in Italia è sempre stata la più pacifica sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblica, condizione che, invero, è comune anche negli altri Paesi dove soggiornano stabilmente e regolarmente le comunità cinesi.
Sidoti conclude il suo bel saggio con l’auspicio che “la grande Cina e la piccola Italia” insieme possano offrire un contributo insostituibile all’ordine internazionale messo a dura prova dai terribili eventi di varia natura degli ultimi anni, così ricchi di tensioni e di infauste prospettive. Solo, infatti, la collaborazione che deve contagiare pure gli altri Paesi può alleviare, compensare, spegnere le spinte eversive che, nella globalizzazione, quasi mai sono preoccupanti per un singolo Paese, ma lo sono invece per l’insieme dell’ordine internazionale.
Mariateresa Gammone, sociologa e brillante ricercatrice dell’Università dell’Aquila è l’autrice di un altro saggio del libro, dal suggestivo titolo Immagini della Cina e della criminalità cinese.
Il lettore è colpito dall’immediatezza dell’affermazione dell’Autrice che non esita, nell’introduzione, a definire l’Italia come il Paese che ha avuto nel mondo i migliori rapporti con la Cina, sia per l’interesse di alcuni grandi italiani, sia per la simpatia della Cina nei confronti dell’Italia resa fascinosa dal patrimonio artistico e di creatività in molti campi, dalla moda alle varie espressioni delle arti. Eppure, l’immagine della Cina è sempre stata parziale, raramente integrata dalla percezione di una crescita poderosa, non solo dell’economia cinese, tanto evidente da non poter essere nascosta, quanto della nuova presenza di quel Paese nella produzione scientifica e industriale e pure della cultura sotto tanti profili. La Cina è protagonista -ricorda la Gammone a quanti sono stati sino ad ora poco attenti- di un aspetto principale del nostro tempo, quello della costruzione di una società della conoscenza, come ben sanno le imprese italiane che, nei settori di più alta qualificazione tecnologica, da Pirelli al Tecnopolo Tiburtino, hanno con la Cina proficui rapporti economici e professionali. Per non dire della messa in orbita del satellite Mozi, primo in assoluto a gestire comunicazioni quantistiche che hanno consentito alla Cina di poter sorpassare l’Occidente nella più sofisticata tecnologia.
Da qui è facile argomentare, per l’arguta ricercatrice dell’università aquilana, che i Paesi i quali non riescono a stare al passo e a reggere la sfida con il modello di sviluppo cinese, siano tentati di ricorrere a strumenti di denigrazione, a cominciare dalla narrazione perentoria della crisi dei diritti umani in Cina, come pure della carenza di democrazia. Ma questo avviene, invero, anche nei riguardi della Russia e dell’Islam.
Significativa e ricca di conseguenze, sul piano della percezione comune, l’affermazione della Gammone, secondo la quale la criminalità è l’orco nella fiaba dell’Occidente, non della Cina, nel senso che i criminali non inquietano il sogno cinese, mentre costituiscono il tallone di Achille dell’Occidente. La narrazione della criminalità in ogni Paese è parte, del resto, assai rilevante della qualità dell’immagine nazionale anche in termini di conseguenze nel settore degli investimenti e ciò spiega l’uso della questione criminale in termini di guerre asimmetriche per colpire la reputazione e l’affidabilità di un Paese ritenuto avversario.
Alla Gammone, sulla scia di quanto sostenuto dal Collega Sidoti, è, infatti, chiaro che la disinformazione è strumento raffinato da giocare per prevalere o per affermare la propria presenza strategica o il ruolo che si intende assumere nel mondo, come è dato cogliere perfino nelle attività di comunicazione delle stesse organizzazioni terroristiche.
Ora, non si può dissentire, in quanto obiettivamente motivata dalla tesi dell’Autrice, secondo cui la narrazione occidentale della Cina risente di questo uso, abile e machiavellico, degli strumenti informativi e comunicativi. Se il tema della criminalità è intrinsecamente l’opposto del tema della sicurezza, non è consentito, quindi, sottacere che lo straordinario sviluppo economico della Cina è avvenuto anche grazie alla pace interna e intorno ai suoi confini e perché la Cina ha un interesse oggettivo a mantenere la stabilità e l’ordine internazionale, essendo impegnata alla graduale costruzione di una comunanza di interessi con i Paesi vicini, con le regioni limitrofe, con gli altri Stati e con gli organismi internazionali.
Certo –è evidente secondo la Gammone– che il crimine da sempre è manifestazione di una insufficienza e di un ritardo e che come la malattia è più visibile della salute, così il crimine è più appariscente di altri profili positivi spesso ignorati, distorti o sottovalutati.
La paura della Cina e della criminalità cinese è, quindi, uno stereotipo, espressione di una più generale difficoltà di adattarsi ad una realtà internazionale in forte mutamento che contiene opportunità e sfide, rischio ed avventura. È così convinzione della ricercatrice aquilana –e come non sostenerla in tali sue affermazioni– che gli stereotipi non siano soltanto italiani. Anche in Francia, infatti, nonostante le tradizioni culturali e sociali e propagandate politiche di apertura, da sempre apprezzate e assunte ad esempio di civiltà e di tolleranza, il cliché della mafia è stato utilizzato contro la comunità cinese definita come un’enclave etnica con un senso proprio della legalità, opaca e impermeabile e ciò è avvenuto nella quasi completa disattenzione delle organizzazioni antirazziste.
La Gammone non tace, con l’autentico spirito della scienziata solo tesa alla verità, che se in Italia l’immagine dei cinesi viene veicolata in maniera riduttiva e superficiale, pure i cinesi non sono stati generosi nella narrazione dell’Italia o meglio degli italiani, quando hanno descritto i problemi della legalità nella penisola italiana o hanno accusato i suoi abitanti di violare la legge e di possedere uno scarso senso civico, il che è stato letto comunque come un segno di debolezza di un Paese piuttosto insicuro e ha offerto l’immagine di uno Stato poco presente.
Del resto, nella pubblica opinione italiana è passato il messaggio di cinesi dediti solo al lavoro, come in quella cinese è stata accreditata l’immagine di italiani pigri e inclini alla distrazione e al divertimento. Tali narrazioni -avverte la Gammone- sono così lontane dalla realtà da essere facilmente contrastate, eppure stanno a significare quanto siano distanti dalla verità proprio perché ignorano i tanti cambiamenti sopravvenuti e le tante virtù dei due popoli.
A tal proposito, viene utilmente citato un dato estremamente significativo: quello relativo al Pil italiano che, nel 1991, era il doppio di quello cinese, brasiliano e indiano messi insieme e oggi rappresenta, invece, un terzo di quello cinese.
Significative appaiono, altresì, le acute e pertinenti riflessioni della Gammone, la quale, prendendo spunto da una serie di accadimenti, alcuni certamente non edificanti della realtà sociale italiana, afferma, con decisione e convinzione, che l’integrazione della comunità cinese nel nostro Paese è ormai un dato acquisito, pur nella constatazione che quella Comunità ha giustamente mantenuto la coscienza della propria identità, sviluppando contemporaneamente la consapevolezza dell’appartenenza anche alla società italiana, nel rispetto delle sue istituzioni democratiche e, in primo luogo, delle agenzie preposte a garantire la sicurezza del Paese.
È ormai lontano il tempo in cui la comunità cinese in Italia nutriva una sorta di diffidenza e di sfiducia verso le Istituzioni nazionali con un conseguente atteggiamento omertoso. La Gammone non esita così nell’affermare che oggi la Comunità cinese ha completamente cambiato atteggiamento sia nei confronti dei gruppi delinquenziali interni che di quelli esterni e ciò significa che gli investigatori italiani ricevono una valida collaborazione nel perseguire i delitti commessi dai cinesi, singolarmente o in gruppi criminali, e concernenti la contraffazione, la immigrazione clandestina, l’evasione fiscale, il riciclaggio di somme provenienti da attività illecite e altri reati di natura non violenta, tipi di reato comunque che non sono peculiari della sola etnia cinese.
I predetti comportamenti criminali vanno, in ogni caso, contrastati, ma senza per questo avanzare la tesi di un pericolo insito nella comunità cinese per il solo fatto di appartenervi e quindi pretendendo, nel contempo, di distinguere tra chi delinque e si tratta di una minoranza, e chi non delinque e si tratta della maggioranza.
Sta proprio in tali fondati e motivati convincimenti il rifiuto della professoressa Gammone di agitare paure e collegarle ad un’etnia per raggiungere obiettivi non dichiarabili, avvalendosi di un espediente anomalo che tradisce una debolezza e non rende la dovuta giustizia fatta soprattutto di verità accertate e di fatti obiettivamente verificatisi e non artatamente e strumentalmente costruiti.
I due pregevoli saggi si distinguono per l’accuratezza del linguaggio, al tempo stesso raffinato scientificamente e lineare nella forma, nonché per la capacità di suscitare curiosità crescente in ragione dell’alternarsi di teoria e prassi, cioè di tesi e di riferimenti dottrinali insieme con la narrazione di episodi clamorosi che hanno segnato le vicende della comunità cinese in Italia e quelle dello stesso nostro Paese.
Preme rilevare che i saggi vanno ad incastonarsi, o se si preferisce trovano ulteriore vigore argomentativo, nei contenuti della ponderata premessa alle interviste curate dai giornalisti Mario Ciotti e Fang Manqing, i quali, accanto all’interessante serie di dati statistici già in precedenza citati e da cui si ricava, con chiarezza, la dimensione quantitativa e qualitativa della Comunità cinese (ben riconoscibile anche riguardo all’area geografica cinese di provenienza), esplicitano il motivo dell’uso dell’inchiesta giornalistica, scelta adottata perché ritenuta uno strumento di provata efficacia per offrire una convincente risposta alle tante domande, forse anche ripetitive, che da tempo i cittadini italiani si pongono nei riguardi degli appartenenti alla comunità cinese.
Il primo degli intervistati è Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Roma, per 12 anni alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, per 5 a quella di Reggio Calabria e prima giudice presso il Tribunale dell’Aquila e quello di Avezzano. Le risposte fornite dal magistrato colpiscono il lettore per la loro incisività e per la schiettezza con cui vengono affrontate le domande, a volte anche insidiose.Tra le tante, ritengo di segnalare una delle risposte fornite dall’illustre esponente della magistratura italiana, laddove egli afferma di non avere elementi per qualificare come presenze mafiose quelle dei gruppi organizzati criminali cinesi denominati triadi, per le peculiarità di questi ultimi che non coincidono con le caratteristiche proprie della fattispecie definita mafiosa dalla legislazione penale nazionale, il che ovviamente non esclude che alcuni soggetti cinesi abbiano potuto costituire associazioni di matrice mafiosa e che vi siano state sentenze di condanna per associazione mafiosa. Chiarificatrice è ancora l’affermazione del magistrato che circoscrive l’ambito entro cui si sviluppa la forte presenza di soggetti criminali cinesi, ravvisabile soprattutto nel delitto di contrabbando nelle sue varie espressioni, dalla produzione alla messa in commercio e alla movimentazione dei prodotti contraffatti particolarmente nel settore tessile.
Prestipino, aldilà della rigorosa qualificazione dottrinale e giurisprudenziale, in termini di mafiosità o meno, ritiene che questi gruppi criminali siano molto forti, strutturati e potenti, in grado cioè di interloquire con le mafie nostrane e di intervenire, come già accaduto a Roma, nel riciclaggio di proventi del commercio per diversi milioni di euro inviati in Cina con la complicità di alcuni titolari di agenzie di money transfer, risorse che vengono così sottratte all’erario italiano e a quello cinese. Secondo l’autorevole procuratore, è necessario quindi avvalersi e credere nel coordinamento degli organi e degli apparati investigativi, i quali devono ormai ragionare in termini di globalità, tenendo nel debito conto della transnazionalità dei reati. Ecco perché occorre, sempre di più, alimentare tale cultura e nutrirla anche di regole da dettare a livello europeo e internazionale.
Di penetrante incisività risultano pure essere le interviste ad importanti esponenti delle Forze di Polizia. Il primo di essi, il generale della Guardia di Finanza Guido Zelano, comandante del corso superiore di polizia tributaria, pone l’accento sulla gravità del fenomeno criminale cinese che riguarda il settore della contraffazione con impatti significativi in più aspetti della vita sociale del Paese, considerato che il fatturato complessivo nazionale della contraffazione si è aggirato, nel 2015, intorno ai 6,9 miliardi di euro e considerato che, secondo alcune stime invero non adeguatamente supportate da dati affidabili, sarebbero centomila i posti di lavoro sottratti all’economia legale. I numeri forniti dall’ufficiale relativamente alle persone denunciate (15.246) e arrestate (170) nel periodo dal gennaio 2015 al luglio 2016, per reati connessi alla contraffazione, con il conseguente sequestro di ben 485 milioni di pezzi illegali, danno in effetti ragione delle preoccupazioni prudentemente segnalate. Il generale Zelano è peraltro convinto, sulla base degli esiti delle ultime operazioni investigative portate a termine dalla Guardia di Finanza, che il fenomeno criminale cinese vada ben oltre la sola contraffazione, riguardando, altresì, forme di associazione a delinquere, truffa aggravata nei confronti dell’INPS, induzione e falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale per la violazione della normativa sul rilascio del permesso di soggiorno in materia di immigrazione clandestina, nonché riciclaggio di capitali ingenti di provenienza illecita inviati in Cina tramite alcune agenzie di money transfer. Nelle dichiarazioni acquisite dalla penetrante intervista non si riscontra, però, alcun cenno a possibili presenze di mafia cinese in Italia, nè ad attuali investigazioni in materia.
La successiva intervista vede come protagonista Vincenzo Nicolì, dirigente della Polizia di Stato in servizio presso lo SCO della Direzione Centrale Anticrimine, il quale, senza alcuna esitazione, alla domanda sulla reale presenza di malavita cinese in Italia, risponde affermando la possibilità che, nel nostro Paese, organizzazioni di matrice straniera possano avere le stesse connotazioni penali previste dalla fattispecie contemplata dall’articolo 416 bis del codice penale, ma che, allo stato dei fatti, formalmente oggi non si possa parlare di mafia vera e propria, ma di manifestazioni paramafiose, difettando, allo stato, nelle citate associazioni criminali gli elementi dell’omertà diffusa e della forza dell’intimidazione.
L’alto funzionario di polizia è, al contempo, convinto che, negli ultimi anni, vi sia stata una forte separazione tra la comunità cinese e i criminali cinesi presenti in Italia. Quando, però, si rompe il muro dell’omertà vuol dire che la parte onesta di quella comunità si trova dinanzi a gruppi criminali più strutturati dai quali vi è l’intendimento di allontanarsi e di “tirarsi fuori”. Questo perché, mentre in passato la criminalità cinese restava nell’ambito della propria comunità, ora essa si è proiettata all’esterno, investendo in attività economiche e aprendosi al mercato dello sfruttamento della prostituzione al di fuori della propria comunità e ciò ha consentito contatti con la criminalità endogena anche relativamente al traffico di stupefacenti. Secondo Nicolì, continuano comunque le estorsioni, le rapine e gli altri reati violenti e predatori in danno dei loro connazionali da parte di giovani criminali cinesi, con la concreta possibilità di accordi con la delinquenza locale per l’occupazione di settori di attività ancora non occupati da altri criminali.
Circa il fenomeno dell’immigrazione clandestina, il brillante funzionario del Servizio Operativo Centrale non lo ritiene esteso. Peraltro, numerose e articolate indagini hanno anche sfatato i miti relativi al fatto che non vi fosse alcun cinese seppellito nei cimiteri italiani e si pensava ad uno scambio di documenti di questi morti finiti chissà dove. Nicolì è categorico in questo, affermando che i cinesi investigati hanno preferito tornare in Cina per trascorrervi la vecchiaia e che, salvo qualche raro caso, non vi sono stati scambi di documenti.
Dalle attente risposte del funzionario della Direzione Centrale Anticrimine si ha, poi, conferma della crescente collaborazione tra le Forze di polizia italiane e cinesi e dei proficui scambi formativi e informativi, questi ultimi tendenti a verificare se la criminalità organizzata cinese operante in Italia abbia rapporti con analoghe strutture criminali in Cina, rapporti sino ad oggi “annusati” e mai provati. Nicolì, peraltro, sa bene che la comunità cinese è percepita, nelle varie città in cui vive, come tranquilla e dedita alle attività commerciali e di ristoro, ma sa pure che occorre continuare a vigilare sulle organizzazioni criminali che si annidano all’interno di quella comunità e che hanno interesse alla “sommersione totale”, soprattutto quando sono in gioco grandi interessi economici.
L’ultima delle interviste, riportata nel libro recensito, viene, infine, riservata al colonnello dell’Arma Luigi Cortellessa, comandante dei Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari, il quale offre un’ampia enunciazione di dati relativi agli oltre seimila controlli effettuati, nel triennio 2013 - 2015, sulla filiera agroalimentare per tutelarla dalle più insidiose tipologie di frodi alimentari con particolare riguardo alla contraffazione e al falso che colpisce pure le produzioni agro-alimentari. L’alto ufficiale, nella circostanza, conferma che le attività operanti, come i ristoranti, nel settore alimentare di etnia cinese vengono controllate con la stessa scrupolosità e periodicità con cui vengono ispezionate tutte le altre e che le verifiche non hanno evidenziato particolari anomalie, se non l’elusione di qualche adempimento riscontrabile nelle medesime attività nazionali.
Per quello che ho scritto in precedenza, non posso che auspicare e consigliare a quanti desiderano superare l’acquiescenza a “quello che si dice” e intendano abbandonare anche il minimo pregiudizio nei confronti di un mondo, quello cinese, così poco conosciuto, di non esitare a leggere il libro dei professori Sidoti e Gammone e dei giornalisti Ciotti e Manqing. Il loro è un lavoro eccellente, teso alla ricerca della verità, ricco di spunti e di riflessioni originali, che coniuga una capacità di analisi non comune con una trattazione accessibile, ma scientifica, di questioni attinenti alla criminalità cinese, in un ambito sino ad oggi non adeguatamente esaminato per la stessa esiguità delle fonti di riferimento e per la parzialità e strumentalizzazione spesso accertate.
I pregiudizi esistenti e le narrazioni non veritiere non hanno, comunque, costituito un ostacolo alla meticolosa ricognizione degli Autori ai quali va riconosciuto un merito non comune e ai quali rinnovo, quindi, il mio incondizionato plauso e il mio sincero grazie.
A conforto dello spirito con cui gli Autori del saggio hanno affrontato un tema tanto delicato quanto complesso che non può prescindere dall’atteggiamento spesso assunto nei confronti della Cina, mi piace, in conclusione, ricordare l’autorevole pensiero di Papa Francesco il quale, in occasione del Capodanno cinese, ha inviato, per la prima volta in oltre due millenni, un messaggio augurale di profondo significato al Presidente Xi Jinping e al popolo cinese, raccolto in una storica intervista dall’editorialista dell’Asia Times, Francesco Scisci.
Nel messaggio, il Sommo Pontefice afferma che la Cina è sempre stata per Lui un grande Paese con una grande cultura e con una saggezza inesauribile, capace di suscitare la Sua profonda ammirazione. Per il Papa il mondo occidentale, il mondo orientale e la Cina hanno tutta la capacità di conservare la bilancia della pace e la forza del farlo. La via è il dialogo e il camminare insieme perché ognuno ha la sua influenza sul bene comune di tutti. Quello del dialogo è, del resto, un aspetto ricorrente nelle affermazioni dello stesso Presidente Romano Prodi, personalità del mondo politico nazionale, europeo e internazionale. Nella strategica visione di questo eminente statista, la grande Cina può, infatti, contribuire a dare una spinta positiva all’economia globale, tramite proprio la promozione del dialogo e della collaborazione con gli altri protagonisti della scena mondiale. Ed è in questo lucido quadro che vanno poste le speranze di un futuro migliore.