Prefazione Domande tutt’altro che oziose. Prima risposta. Come davanti a un quadro di Rembrandt – sto pensando particolarmente alla Lezione d’anatomia del dottor Tulp: se ci allontaniamo dalla visione immediata-ravvicinata, il groviglio materico e informe delle pennellate ci sorprende, restituendoci una visione d’insieme della scena. Simulacro di una qualche verità più profonda. Così, a leggerli tutti d’un fiato, questi articoli ci riconsegnano i lineamenti di un paesaggio complessivo – paesaggio morale, intendo – il polso vitale di una città intera. Della comunità che la abita. Dei suoi umori e malumori. Insomma, una città-personaggio in chiave corale. Magari turbolenta, problematica, sonnolenta e ipocrita, slabbrata e incoerente. Forse rugosa-infelice come la più negletta delle Cenerentole. Ma in queste pagine Viterbo c’è per davvero. Per quello che è. E proprio da qui – da oltre lo specchio – insieme con la Viterbo che non fatichiamo a riconoscere, quella di ogni giorno, Il mestiere di scrivere ci restituisce anche i lineamenti nitidi, il ritratto di una Viterbo altra, di una Viterbo possibile, civitas più civile e più degna. La Viterbo che vorremmo. L’Italia che vorremmo. Viterbo specimeno di quel vasto Mondo che sempre più fatichiamo ad abitare. Così la cronaca, qua e là, sa sollevarsi dal semplice quotidiano, per farsi storia. Seconda risposta. Come davanti a Las Meninas di Velazquez, insieme col personaggio-paesaggio della città, Il mestiere di scrivere porta in scena anche l’autoritratto del pittore, cioè del Carlo Galeotti giornalista. Posso affermarlo con serenità olimpica: Carlo rappresenta ormai un pezzo insostituibile della storia e della memoria civile di questa città (e non solo). Quasi trent’anni di professionismo. In principio furono le cene a tarda sera coi colleghi della redazione, dopo la chiusura della prima pagina per l’indomani: con certe immancabili-solitarie passeggiate notturne per strade e piazze deserte del capoluogo di provincia; erano i tempi (epici: ormai possiamo dirlo) del giovane-giovanissimo Corriere di Viterbo (tutto qui mi ricorda il Philip Noiret di Amici miei). Intervenne poi il felice-autoesilio di Varese (si trattava in realtà delle conseguenze di uno scontro di Carlo con i piani alti della testata: sempre stato un bel fumino, bisogna essere sinceri, poco incline a piegare il capo!). E con l’autoesilio l’agnizione, precocissima, del futuro del giornalismo inscritto nell’universo del Web: ne nacque Varese News, testata online che riscosse successo immediato e clamoroso. Infine il rientro a Viterbo e l’alba coraggiosa (inizialmente tutta in solitaria) di Tusciaweb (era il 2003). Il resto è storia. Terza risposta. Attraverso il regesto dei suoi eteronimi, Carlo Galeotti ci rivela molto di sé anche come uomo. Dichiarando la pattuglia dei più fidi collaboratori infatti, Carlo ci spalanca a sorpresa le porte del suo studiolo più intimo e segreto. Conosco bene, per privilegio d’amicizia – un’amicizia antica quanto fedele – i suoi infernali ritmi di lavoro, le sue monacali abitudini di vita. Nel poco di Mondo che ho visto sino ad oggi, non m’è mai capitato d’incontrare persona che, al pari lui, abbia saputo-voluto consacrarsi vestale al suo mestiere. Vivendone di conseguenza. Così ogni volta mi torna in mente quel che Balthus confidava di sé: di non aver trascorso cioè un solo giorno della propria vita senza lavorare. Con la complicazione che per Carlo non esiste più da decenni nemmeno – e intendo dire proprio mai-mai: 365 giorni all’anno – una vera differenza tra feriale e festivo. Tra giorno e notte. Ai miei occhi Carlo incarna l’archetipo nobile-universale del giornalista con la G maiuscola: quello a mezza via, per intenderci, tra Jack Lemmon e Walter Matthau nell’indimenticabile Prima pagina di Billy Wilder. Allegra canaglia quindi Carlo, ma anche e soprattutto apostolo devoto del diritto all’informazione in una società che voglia ancora dirsi democratica e illuminista. Del mio amico-fratello Carlo per chiudere, credo siano proprio i suoi eteronimi – Lupo Solitario (il leggendario dj di American graffiti), Miyamoto Musashi (imbattibile samurai nonché raffinato scrittore e calligrafo giapponese del XVII secolo) ed Ernie Souchak (il testardo-tenero cronista del Sun-Times di Chicago, memorabilmente interpretato da John Belushi in Chiamami aquila) – a comporre il più autentico autoritratto confidenziale: burbero-schivo, ma colmo di passione, di rigore; combattente nato ma umilmente colto (bibliofilo ai limiti della bibliomania: ci fu un regno intermedio in cui Carletto lavorò alla scrittura e curatela di una quindicina di libri, un reale tentativo di vivere scrivendo libri, cosa che ben sapeva difficile ma che egualmente volle tentare, perché si vive una volta sola); tenace-testardo nel mestiere, a tratti spudorato, così come pudico-fedele nei sentimenti, specie quello amoroso. Beh, direi che è tanta roba: per ammirarlo come professionista dell’informazione, e per volergli bene come amico. Viterbo ha più di un debito con Carlo Galeotti. Prima o poi qualcuno doveva pur dirlo ad alta voce. Facciamo così: me ne prendo io la responsabilità. Perciò buona lettura a tutte e a tutti voi. Antonello Ricci |
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