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Nato da scrupolose ricerche d’archivio, Sottoassedio porta in scena e indaga sentimenti e risentimenti, affetti ed effetti, odi e rancori di parte accesi e moltiplicati dalla violenza dello squadrismo fascista nella insanguinata stagione che precedette la marcia su Roma e l’avvento del regime. Il testo, di Antonello Ricci, si basa sulla meticolosa ricostruzione e su una interpretazione storiograficamente rigorosa dei cosiddetti “fatti di Viterbo”. A partire dal vaglio sincero e spassionato di tutte le fonti disponibili (dagli atti processuali alle carte di polizia, dagli articoli di giornale alle foto d’epoca, dai memoriali scritti alle testimonianze orali) e attraverso la messinscena della sua folla di personaggi “inventati dal vero” Sottoassedio rievoca nel linguaggio del dramma (fatto di parola detta - a volte, perché no?, parola dialettale - ma anche di gesti e silenzi, di rulli di tamburo e versi improvvisati, di canzonette e cori) alcuni gravi episodi di violenza politica accaduti a Viterbo tra la primavera 1921 e l’estate 1922. Nella convinzione che rivivere teatralmente certe vicende o, se si preferisce, certi incubi, come in ogni psicodramma che si rispetti, sia il primo passo necessario per una buona terapia. Ma qui il discorso si farebbe lungo… Viterbo 1921-1922, i fatti. 2 maggio 1921. Campagna elettorale per le politiche. A Viterbo, un lacero e scarmigliato Bottai prende parola da un balcone in piazza delle Erbe. O almeno tenta. Perché dabbasso un popolo di mezzadri e cavatori, anarchici e socialisti, repubblicani e comunisti lo fischia, impedendogli di parlare. Lo raggiunge lo scalpellino Duilio Mainella, repubblicano e ardito del popolo, che lo affronta in contraddittorio. Il comizio, in altre parole, appena cominciato è già finito. I pur numerosi fascisti, intervenuti da Roma e dall’Umbria, si arrendono all’evidenza: abbandoneranno la città. Ma non prima di aver dato vita a violenti scontri a piazza della Rocca. Ci scappa il morto. Il giovane Antonio Prosperoni il quale, inerme e incolpevole, rincasava dal lavoro. Viterbo, in lutto, resiste inespugnata. Ma è solo questione di tempo. L’assedio è cominciato. Il 10 luglio, per l’inaugurazione del gagliardetto del fascio locale, le vie della città sono presidiate da gruppi di fascisti orvietani armati fino ai denti. Ovunque intimidazioni, soprusi, malmenamenti, ferimenti. La popolazione, terrorizzata, si barrica in casa. Qualcuno decide di reagire. Tafferugli isolati. La forza pubblica non brilla per iniziativa. Dalla sua casa nei pressi di via Cairoli, il contadino Tommaso Pesci ode colpi d’arma da fuoco, uno dei figlioletti manca all’appello, decide di affacciarsi per strada. È freddato sull’uscio da un colpo di revolver. Due giorni dopo, è il 12, funerali solenni, con la città in sciopero e in stato d’assedio: esercito alle porte, manipoli di arditi del popolo a guardia delle mura medievali, qualche centinaio di fascisti accampati nell’immediato suburbio. È di passaggio per Viterbo un’Alfa Torpedo su cui viaggia, di ritorno da una gita e diretta a Roma, la signora Lucille Beckett coi suoi 3 figli. Tragico equivoco o macabra provocazione? L’auto è investita da una gragnola di colpi d’arma da fuoco. Perde la vita il secondogenito della signora Beckett, il quindicenne Jaromir Czernin. Anche stavolta i fascisti non ce l’hanno fatta. Ma l’assedio si stringe. Passa un anno, uno soltanto. Tutto è cambiato però, quando la sera del nove luglio 1922 tre sicari fascisti uccidono a coltellate sulla pubblica via il venticinquenne Antonio Tavani, ardito del popolo. Tutto è cambiato. Perché ai funerali, pur imponenti per adesione di popolo, saranno di fatto assenti le istituzioni. Perché la città sarà presidiata per giorni da squadre fasciste. Perché l’opinione pubblica negherà il carattere politico dell’omicidio preferendo ascriverlo invece alla categoria dei reati comuni. Ma soprattutto perché i sicari conoscevano bene l’assassinato essendo stati tutti, fino a poche settimane prima, anarchici e arditi del popolo essi stessi. A dimostrazione che il vero assedio si stava consumando altrove. Nella nascosta camera della coscienza. E in tanti avevano già capitolato. Alla violenza dello squadrismo. Al conformismo. Sottoassedio è andato in scena
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