Leggetelo
Bisogna proprio leggerlo, prima di vederlo rappresentato, questo monologo. Perché è una lezione di scrittura teatrale. O meglio di cosa vuol dire non scrivere per il teatro, ma scrivere nel teatro.
Giuseppe Emiliani è un regista, oltre che uno scrittore, e sa che qualche volta ci si imbatte in testi, anche importanti, che non abitano veramente dentro il teatro, perché le parole non creano il proprio ambiente di rappresentazione. Ma sa anche che la vera scrittura teatrale porta con sé il suo spazio, la sua dimensione scenica.
Sad, il protagonista di questo testo, è un abitante del teatro, è sin dalla prima frase un personaggio, che parla a noi, si rivela a noi, ma non è nel nostro spazio, perché sente sotto i suoi piedi le tavole del palcoscenico, non conosce la luce del sole, ma solo quella dei fari, che lo illuminano, ma poi diventano nero. Ed i gesti, li avverti nelle parole, non sono propriamente i nostri gesti, sono carichi di qualcosa di più grande, di più forte, di quel troppo che è il teatro.
Eppure Sad lo conosciamo anche nella vita di tutti i giorni, noi come Giuseppe Emiliani. È l’uomo nero che sta davanti al supermercato, è il venditore di calzini e fazzoletti di carta, è il venditore che ti disturba al ristorante. Anche loro hanno storie da raccontare; e qualche volta viene da pensare che bisognerebbe ascoltarle nude e crude, quelle storie, che il realismo estremo sarebbe eticamente la scelta più autentica. Giuseppe Emiliani invece ne fa teatro, rende Sad un personaggio, gli regala una dimensione diversa, perché non si accontenta di raccontare una storia, per quanto esemplare e drammatica. Prova a raccontare, invece, una vita in meno di un’ora. E per questo ha bisogno del teatro. Ma prova a raccontare, anche, la nostra vita, la nostra vita accanto a Sad, accanto a chi non vogliamo, a chi guardiamo con diffidenza, se non con paura.
I nostri occhi giudicano, sono parte fondamentale del dramma di Sad.
W.E.B. Du Bois, uno dei primi neri a riflettere sulla propria condizione di diversità, ad inizio Novecento, denunciava la doppia coscienza del nero: “questo senso del guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri, di misurare la propria anima col metro di un mondo che ti guarda con divertito disprezzo e con pietà”.
Sad vive sotto i nostri occhi, ma soprattutto non può fare a meno di guardare se stesso con i nostri occhi. Il nostro disprezzo, la nostra falsa tolleranza diventano anche suoi: vive una lotta con se stesso che fa andare in frantumi l’identità. Come accade a tanti, a quelli che dopo aver raggiunto l’Europa lottando e soffrendo, decidono di farla finita quando perdono anche il rapporto con se stessi.
Sad lotta con se stesso. Perchè la sua diversità è ben oltre quella del monologo shakespeariano nel Mercante di Venezia. Sad non riesce più a dire “Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?”. Dice piuttosto : “Griderei perché voi siete nel giusto. Griderei per farvi coraggio. Si ammettiamo che questa scheggia mi penetri sotto la pelle, io non griderei di dolore. Griderei perché avete ragione voi. Sì, davvero.”
Non è l’uomo senza diritti Sad, è l’uomo che non si ritiene più neppure all’altezza di averli, i diritti. Diceva Sartre che bisogna giudicare il mondo “con gli occhi dei meno privilegiati”. Sad , al contrario, guarda a se stesso con gli occhi dei più privilegiati. Ma è proprio guardando Sad che si giudica coi nostri occhi, che riusciamo a giudicarci coi suoi. Come vuole Emiliani. In realtà come vuole il teatro.
Nicolò Menniti-Ippolito
critico teatrale
Introduzione
Il drammaturgo è una specie di ladro.
Si introduce in territori proibiti per svelarli.
A volte ruba anime dalla realtà.
Anch’ io, lo confesso, ho commesso un furto.
Ho rubato una storia amara. La storia di Sad.
Ho conosciuto Sad a Roma. Vendeva fiori, di sera. Solo rose rosse.
In cambio di qualche pizza mi ha raccontato qualche frammento della sua vita, le sue continue “toccate e fughe” da vari paesi d’Europa, il suo perenne fuggire.
Ci siamo visti per più sere di seguito. Stessa trattoria. Stessa ora. Stesso tavolo.
Sad, sempre stesso vestito, stessi occhi furbi e vivaci, parlava, parlava ininterrottamente.
Un suo amico, Mokhtar, qualche mese dopo mi ha confessato: “Non l’ho mai visto parlare così tanto e così animatamente…Forse, Sad, sapeva già quello che, di lì a poco, gli sarebbe accaduto…”
“Perché, cosa gli è successo?” ho chiesto a Mokhtar.
“Lo hanno ucciso a Berlino, i naziskin, a colpi di spranghe, in metropolitana.”
La storia di Sad è una testimonianza, una storia vera.
La storia di un clandestino, di un immigrante, di un irregolare, di uno straniero, di un extracomunitario illegale: uno degli ultimi dannati della terra.
La storia di chi ha conosciuto il doloroso abbandono della propria casa, delle proprie radici.
La storia di chi si sposta continuamente: in Italia o sulla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, oppure in Spagna o in Francia, ovunque. E’ la storia di quegli uomini che né la repressione, né le minacce potranno mai arrestare.
La storia di Sad e’ la storia di quegli uomini che hanno deciso di non rassegnarsi alla sorte miserabile e intollerabile che gli dei e gli uomini gli hanno riservato.
La storia di Sad non è la storia di un’aberrazione dei nostri tempi, di un errore, di una sbavatura della nostra epoca. No. La storia di Sad è la storia dolente, sarcastica ed atroce di chi viene brutalmente massacrato perché “non desiderato”.
Sad è arabo ma potrebbe essere nato in qualsiasi paese, sotto qualsiasi orizzonte. E’ un uomo solo. Poco importa la sua nazionalità. Quest’uomo, da solo, è di per sé una ferita.
Sad è una ferita che ci parla e provoca la nostra tranquillità e la nostra buona coscienza.
Sad è un pugno allo stomaco. Una lancinante e lucida accusa alla nostra finta tolleranza.
Sad è e’ la faccia nascosta della nostra identità. L’origine perduta. Il radicamento impossibile.
Sad è il paradosso dell’attore. Moltiplicando le sue facce, non è mai del tutto vero né del tutto falso.
Sad è costretto ad essere straniero anche a se stesso. Sempre in balìa degli altri e delle circostanze.
Sad non può dire. Ha addirittura paura di pronunciare il proprio nome. Perché Sad non si chiama Sad e solo di notte può sognare il suo cognome.
Giuseppe Emiliani
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