Presentazione di Massimo Onofri
Il primo ricordo che ho di Claudio Di Marco risale agli anni della mia primissima adolescenza e degli acerbi amori, ma anche della mia mediocre carriera di calciatore, allenato dall'indimenticabile Mammoletto: un terzino sinistro di cattiveria, d'una qualche tecnica, ma di nessuna potenza e piuttosto maldestro. Mi ritorna, nitidissima, l'immagine dello sterrato del Murialdo: e Claudio che almanacca di vita e di pallone, con una lingua singolare e fiorita, screziata d'una ironia insolita per un ragazzo. Non gli ho mai chiesto se leggesse Brera e se lo prendesse in qualche modo a modello: ma penso di sì. Doveva avere sui sedici anni e, forse, già collaborava alle allora pagine de “Il Tempo”, che trovavo a casa ogni giorno, diretto in loco da Giorgio Martellotti e che poteva contare su un cronista sportivo d'eccezione: Giuseppe Mascolo.
Che voglio dire con tutto questo? Che per Claudio il calcio era già linguaggio. Era, se vogliamo metterla così, storia e metafora: capace com'era e com'è di calamitare su di sé, con impensabile allegria, tutti i significati dell'esistenza: quella combattuta fisicamente tutti i giorni, ma anche quella più segreta e intima. Che cosa sarebbe, del resto, il calcio, se non rappresentasse, per milioni di persone, l'unica possibilità di vivere una vita all'altezza dei propri sogni? Ho detto che per Claudio il calcio era già linguaggio. E il linguaggio è, innanzi tutto, memoria: di sé e del mondo, del proprio mondo. Sicché non mi sono sorpreso nemmeno per un istante che Claudio abbia scritto un libro così: direi, anzi, che ha aspettato sin troppi anni per farlo. Chi, come me, va allo stadio da almeno trent'anni a vedere la Viterbese, ché del resto nulla m'interessa, troverà in queste pagine una storia del calcio cittadino in qualche momento persino nobile, di certo non ignobile, e scritta al modo antico: il modo di chi sa che ogni storia deve avere una sua araldica e i suoi riconoscibili eroi. È l'unica epica che ci è ancora concessa nel tempo della povertà spirituale. Ma vi troverà, soprattutto, la celebrazione d'una nostra piccola e campanilistica leggenda di viterbesi, il suo inconfondibile alone, la sua eco di incredibile umanità.