Una lunga guerra per l’Unità e l’Indipendenza dell’Italia: questo in sintesi l’obiettivo politico raggiunto dal nostro Risorgimento. Uomini –soprattutto giovani–, sangue e battaglie, ideali e misfatti, speranze e delusioni, i protagonisti dell’evento che non ha avuto pari nella storia europea del XIX secolo. Nei monumenti e paesaggi delle nostre città, nella toponomastica urbana, nei luoghi rustici della grande epopea, tutto ci evoca e rinvia all’età che ha voluto e fondato la Patria. Così è stato anche per le canzoni patriotiche, da quelle popolari e dai versi semplici, o di autori sconosciuti (La bella Gigogin, Garibaldi fu ferito), a quelle musicalmente colte di Verdi.
Un Risorgimento nel quale anche le donne hanno dato la loro azione e voce, protagoniste anch’esse di una storia che non sempre ha riconosciuto loro identità e partecipazione e che solo la storiografia più recente ha tolto dalla invisibilità. Una partecipazione femminile che nella Tuscia viterbese si manifestò già nel 1849 ed ha poi avuto in Innocenza Ansuini la coscienza più alta. La patriota (Viterbo, 1829 – Roma, 1896) fu incaricata dai viterbesi del Comitato di emigrazione in Orvieto di organizzare e raccogliere i voti del plebiscito (novembre 1860) che chiedeva al Parlamento di Torino l’annessione di Viterbo all’Italia. Repubblicana e sostenitrice dell’emancipazione femminile, con il marito Ermenigildo Tondi e la figlia Adelina fu fervente mazziniana e una delle più raffinate poetesse (Canti dell’Esule) dell’Italia risorgimentale.
Attraverso lo studio del Risorgimento è possibile valutare le imprese e gli slanci di ideali della meglio gioventù italiana come anche conoscere il cinico gattopardismo di altri italiani. Una riflessione questa nella quale il giudizio raggiunto da ciascuno rinvia alla coscienza della propria volontà di appartenere ad una patria comune più grande della propria città, regione, come anche ad comunità più grande di quella parentale. Un’identità e appartenenza alla nazione che si apprendono e acquisiscono attraverso la conoscenza e la condivisione della storia e non trasmissibili per genotipo. Un’idea di nazione che, coerente con lo spirito e valori di solidarietà, di democrazia del Risorgimento, è aliena dal nazionalismo imperialistico maturato alla fine del XIX secolo nella cultura europea e non solo.
Gli uomini conoscono prima attraverso la fantasia poi con la ragione. Così è anche per la storia e così è anche per il Risorgimento la cui sua narrazione reca in sé l’indagine razionale degli accadimenti come anche l’immaginario che ciascuna nazione ha ed elabora di sé. La bandiera, l’inno nazionale, non sono la combinazione esteticamente riuscita di colori, di note e parole, sono i simboli tangibili dell’appartenenza del singolo ad una Comunità più grande alla quale sa e vuole appartenere nella comune condivisione di lingua, cultura, tradizioni… e storia. E così gli uomini e le idee del Risorgimento sono ritornati, “i martiri nostri son tutti risorti” come cantano i versi di Luigi Mercatini, nei passaggi cruciali della nostra storia più recente: nella Costituzione Italiana che ha avuto in consegna dalla Costituzione Romana del 1849 una preziosa fonte di valori democratici, nell’8 settembre 1943, e più ancora il 25 aprile 1945, quando gli italiani si ritrovarono a cantare spontaneamente per le strade l’inno Fratelli d’Italia (o meglio Il canto degli Italiani) e l’Inno di Garibaldi, i soli canti che avvertivano rappresentativi della loro identità di italiani. Il recente tentativo di attribuire a padre Atanasio Canata i versi del Canto degli Italiani e non a Goffredo Mameli, su musica di Michele Novaro, rientra in quel tipo di revisionismo strumentale, di matrice ideologica che ha fatto poi della zona grigia di “Francia o Spagna purchè se magna”, dell’attendismo, della morte della patria, gli arieti per il negazionismo del valore morale della coscienza democratica e civica degli italiani, eternamente fermati dall’io particulare.
Del Risorgimento è parte anche l’immaginario degli uomini e delle donne che fecero l’Italia: Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, Cattaneo, Pisacane, Jessie White…, su tutti però Garibaldi, i Mille. Le liste ufficiali (1878) ci dicono che a Quarto s’imbarcarono 1089 volontari, tra loro anche due donne ma erano entrambe vestite da uomo (l’arruolamento delle donne non era consentito), si trattava di Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, futuro ministro e Presidente del Consiglio, e di Antonia Masanello, morta a Firenze nel 1862 a soli 29 anni, malata e in povertà. Di quei volontari, 443 provenivano dalla Lombardia, 157 dalla Liguria, 111 dal Veneto (non ancora annesso all’Italia), 28 dal Piemonte, 45 dalla Sicilia, 10 stranieri… Fra i 9 del Lazio anche il viterbese Pietro Rossi, morto poi a Castel Giorgio (1876). Solo 230 i fucili a disposizione dei Mille al momento della partenza (5 maggio 1860) e 20 le cartucce distribuite a ciascuno, naturalmente da confezionare durante la navigazione. Il giorno dello sbarco a Marsala, l’11 maggio 1860, avvenuto senza alcuna perdita e facilitato dalla presenza nelle acque di due navi inglesi, solo in 150 vestivano la camicia rossa. L’immaginario delle mille camicie rosse continua qui ad ingannarci preferendolo alla verità storica così come avviene per la presa della Bastiglia in Francia, per l’assalto del Palazzo d’inverno in Russia.
I Mille e Garibaldi sono l’evento più bello, più noto ed eroico del Risorgimento, accendono l’epos. Le date, gli eventi, la strategia, le battaglie, non spiegano ancora l’impresa. Se Garibaldi avesse deciso la spedizione sulla base dei sondaggi non sarebbe mai salpato, le informazioni sulle avvenute insurrezioni a Palermo, duramente represse dai borbonici, anticipavano solo la speranza non assicuravano l’esito finale. Dalla Sicilia fino al Volturno i garibaldini fecero l’Italia ma da italiani da “una vita da mediano” furono pressoché tutti estromessi dal Regio Esercito Nazionale.
La sosta a Talamone dei Mille prima di raggiungere la Sicilia, con lo sbarco e l’arrivo della Colonna di circa 60 volontari di Callimaco Zambianchi dentro le terre di confine dello Stato della Chiesa (Latera, Grotte di Castro, Onano), fu la miccia che incendiò le polveri dei moti di annessione al nuovo Regno nei centri del Patrimonio. Moti ed insurrezioni che a partire da quel 19 maggio 1860 si prolungarono fino a tutto dicembre e tornarono ad incendiarsi nuovamente nella tarda estate 1867 e fino alla sconfitta di Garibaldi a Mentana pochi mesi dopo. Moti quest’ultimi ai quali presero parte gli emigrati e i compromessi politici della nostra Provincia, dal capitano Riccardo Bousquet di Onano al maggiore Giuseppe Baldini di Siena, da Ermenigildo Tondi con la moglie Innocenza Ansuini di Viterbo a GiovanAntonio Egisti di Ischia.
Fatti e protagonisti noti solo in parte e che solo gli studi più recenti hanno posto in giusta evidenza all’interno di un più complesso e nuovo approccio storiografico che dalla dimensione localistica si apre alla grande storia nazionale. Dimensione questa alla quale questa monografia sul Risorgimento ad Ischia di Castro, con la consultazione di documenti d’archivio inediti e bibliografici, dà fondamento ricostruendone i fatti, i personaggi i luoghi e che l’autrice ha finemente e scrupolosamente raccolto e raccontato. Un brillante saggio che partendo dalla breve esperienza della Repubblica Romana del 1849 e dei patrioti dell’Associazione Castrense giunge fino al 1870 e che pone al centro della sua analisi la questione della terra e dell’Unità. La questione viterbese coincide con la complessa questione dell’annessione di Roma all’Italia: Parigi, Roma, Viterbo furono in quei due decenni al centro del compromesso diplomatico tra l’Italia di Cavour e la Francia di Napoleone III. Della questione romana, l’Italia mazziniana e garibaldina dava una soluzione priva di compromessi politici che nelle sole armi dei volontari trovava la sua risposta. Gli uomini della banda di Ischia e dello scontro di Canino, di Farnese e di Valentano del 1867, sono i protagonisti del fallito tentativo di annessione del Lazio all’Italia.
La questione della terra è però il nucleo centrale sul quale il saggio pone la sua attenzione spiegandone le spinte, le motivazioni sociali, economiche, che mossero quegli uomini. È la questione centrale di tutto il Risorgimento nazionale, la rivoluzione agraria mancata messa in risalto da Gramsci, la terra e libertà di Verga, e prima ancora di Cristina di Belgiojoso per i contadini della Lombardia.
E così attraverso queste pagine di storia scopriamo che anche i nostri patrioti, perlopiù ignorati o sconosciuti e spesso in modo contraddittorio, si trovarono ad agire dentro eventi che portarono alla nascita dell’Italia unita e liberale e che hanno, come scrive l’autrice “traghettato il paese nel mondo di oggi”. A lei il merito di aver dato identità e voce a quegli uomini.