Anche ora che va salendo i gradini più alti degli ‘anta’, non perde il vizio di sedersi a metà mattino per un pasto frugale che rappresenta un rito. Celebrato dove capita – in faccia al sole con l’isola all’orizzonte, sotto una quercia secolare, in casa poggiando gli arnesi sul tavolo di lavoro oppure da viandante – sempre munito di una triade necessaria. Un coltello affilato quanto basta, due contenitori di ceramica. La beatitudine giunge quando la fragranza inebriante del pane appena sfornato è lì a portata di mano. I ricordi di famiglia ammonivano di non incidere la pagnotta calda, però se il desiderio era tanto, l’attesa diventava dolorosa. Eppure talvolta aspettava. Oggi la ragione prevale, ma è sempre un’impresa tenere a bada ogni frenesia, finanche quella del gusto. Quindi la decisione: il taglio è geometrico, la crosta amorosamente baciata dal calore, scricchiola, l’impasto compatto e odoroso è pronto all’unzione. Segue quel gocciolare morbido e coprente, verdognolo e aurifero, cui si legano con duttile sfregolare delle dita i granuli cristallini. Il miracolo della semplicità che può nutrire, e certamente appagare il palato di chi vive nelle terre del Mare di Mezzo, è compiuto. Mordendo e assaporando a occhi spalancati e a tratti socchiusi, il beneficio è totale. Il bicchiere che segue e fa sangue, conclude in bellezza la pausa. Candida o peccaminosa, ma eternamente umana.
Le storie di questo libro raccontano un presente in sintonìa col passato, capace di unire memoria e gioioso desiderio di futuro
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