Una mattina mi sono svegliato e mi sono chiesto come «usare» il tempo liberato dal Grande Burlone per continuare a sentirmi «vivo». È stato così che all’ottavo giorno di «confinamento» ho deciso di scrivere per quaranta giorni le resistibili avventure di Francesco e delle tre talpe che scorazzano nelle sue caverne, insieme alle storie, alle fantasie, ai sogni che lo hanno abitato in questo strammo periodo di vita. Rileggendolo ho sentito luccicare parole stanche, ho sentito appassire parole brillanti, qualche fatto mai avvenuto è diventato parte della mia vita, ho riso e pianto, carezzato e sciabolato con le tre talpe che sono ormai incistate nel mio ciriveddru, nel mio corpo sconocchiato. Il mio viaggio è stato lungo, parlo frequentemente con la morte che fa sempre più capolino nella mia vita, oltre ad avermi consegnato un dolore che mi ha portato a fissare nuovi paletti nel non senso della vita: una morte bianca in una notte di sole, quella di mio figlio Emiliano. Nello scrivere ho provato a ingannare il tempo, insieme ho avvertito che le mie parole, malgrado gli sforzi, hanno saputo accompagnare pigramente gli eventi stordendone le profondità. Alla fine dei quaranta giorni mi sono chiesto cosa è cambiato in me. Capita che un grande evento riesca a stabilizzare il dinamismo che sgorga dalla mia natura polemica, capita che sappia raggiungere la soglia del possibile, ma so che fuori canto e dentro urlo, perché niente è vero. Forse!
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