Prefazione di Antonello Ricci

La mia storia comincia con uno schiaffo. C'è una madre impietrita dallo strazio. Si chiama Gemma. Una contadina bella e orgogliosa, ma non sorride più. Dieci anni prima i fascisti le hanno ucciso il figlio. Lei dà lo schiaffo. La guancia rossa e le lacrime sono invece dell'altro figlio, il piccolo Valerio. Dieci anni. Dolce poeta di bambino, piccola lenza di proletario. Faceva a botte con un compagno, è rotolato in mezzo agli stivali di un regista. Quello l'ha tirato su, l'ha guardato in faccia, l'ha fatto recitare. Una comparsata, niente più. Che film? Un film di fascisti. Non ti azzardare! Schiaffo. Quel regista è Blasetti, il film è Vecchia guardia. Un'agiografia dei giorni che precedettero la marcia su Roma.
Ma nella mia storia ci sono altri personaggi.
Edoardo, per esempio. Un fabbro di trent'anni. Podista di valore nazionale. E fiero antifascista. È innamorato di una ragazzina che si chiama Libertaria. Grida sempre il suo nome, sfrecciando per strada all'alba mentre si allena. Saluta a pugno chiuso ogni volta che taglia il traguardo. E i gerarchi s'incazzano. Una sera d’autunno, con mazze e tirapugni alcuni camerati gli spaccano gambe e polmoni. Poi c'è Valentinuccio gojo, il gobbo che gira la rota del canaparo nella bottega sotto al ponte. Valentinuccio il sempliciotto, fascista della prim'ora. Che ogni notte visita in sogno Valerio. E nell'incubo si confonde con quell'altro, il Cavaliere Senza Volto, il capo dei morti-vivi in camicia nera, cialtrone e arrogante, che amava farsi fotografare con l'armatura di famiglia. La celata sulla faccia. Valerio non l'ha mai visto. Ma ne ha sentito tanto raccontare dai vecchi su alla cava, dove fa il meo, carreggiando la brocca dell'acqua da scoglio a scoglio, portando loro da bere. Quelle storie di manganelli, olio di ricino e pistole gli hanno sempre fatto paura. Per fortuna che a proteggerlo c'è Garibaldi. Un bel vocabolario con l'elenco dei Mille. Nome per nome, città per città. Compreso quello della sua, che si chiamava Pietro. I garibaldini buoni e intrepidi, con la loro camicia rossa che nessuno potrà mai tingere di nero, neanche sui libri di scuola. C'è infine nonno Olindo, vecchio cavallaro che canta da poeta. Versi di Dante e ottave dell'Ariosto. Forse è un po' tocco. Impara a Valerio come si annoda il lazo e gli racconta di quando faceva il buttero in Maremma e vinse contro il circo di Bufalo Bill e il colonnello gli regalò un fucile. Bellissimo. Una carabina col calcio di madreperla. E quel fucile…

Da otto anni avevo nel cuore questa storia. E volevo scriverla. Ma non lo facevo. Da quasi otto anni solo scritture di "servizio". Articoli di critica, comunicati, recensioni, relazioni a convegni, testi per conferenze ecc. Esperienze belle e gratificanti, ma squisitamente "pubbliche". Mentre una storia è la tua. La tua vita.
Mi domandavo: Perché? Perché non scrivo? Perché non mi ci butto dentro con tutte le scarpe? Perché non me ne libero? La verità è che non lo sapevo.
Più di vent'anni fa, veramente, avevo scritto racconti. Non erano male. Ma quanta strada avevo ancora da fare. Qualcuno mi disse: sai, sembra che tu ai tuoi personaggi non gli vuoi bene. E la piantai lì. Venne una stagione di versi. Poi giochi di poesia visiva. Poi una prosa elegante, preziosa (non sempre scorrevole, a essere sinceri): una prosa che sembrava un po' storia locale un po' autobiografia. E al tempo stesso niente di tutto ciò.
Per tanto tempo ho creduto che scrittura fosse sinonimo di perfetto scioglimento dell'intenzione nella compiutezza dell'oggetto. E invece. Oggi so che l'eterna forza del racconto e della vita s'annidano piuttosto nell'imperfezione. Come le donne tessitrici navajos, che lasciano sempre una menda nei loro tappeti, perché l'anima possa trovare una via d'uscita dal labirinto dell'opera compiuta. Oggi diffido delle dichiarazioni di intenti che licenziamo sul nostro stesso scrivere e/o sullo scrivere in generale. Per quanto profondamente sofferte e macerate, tali dichiarazioni di principio difficilmente scavano la superficie delle cose. Mentre incliniamo a scambiarle per postulati, per verità primitive. Sono piuttosto autoritratti, strategie di fondazione identitaria. Feconde certo, ma di segno concettuale, ideologico. Per ciò stesso fuorvianti.
Pareyson ha scritto da qualche parte che l'arte è una bestia strana. Se è vero che, tanto quanto l'autore fa l'opera, l'opera fa l'autore. Solo oggi credo di aver capito davvero il senso di questo calembour. E il suo paradosso. Preparare noi stessi è fondamentale. Ma non basta. Occorre desiderio ardente. Cieca fiducia. Capacità di ascolto e di abbandono. Accanto ai ferri del mestiere serve amore. Per la vita. Fino in fondo. Perché il nostro racconto scaldi davvero i cuori raccolti attorno a un camino o al fuoco di un bivacco. O alla mensa di Alcinoo. Quando Ulisse sfamato pianse ascoltando l'aedo dei Feaci cantare l'inganno del cavallo. Riconoscendosi. E poi prese a narrare a sua volta. Storie mai sentite prima. Peripezie incredibili. E Nausicaa s'innamorò di lui. E