Il dibattito su come tentare di conservare e valorizzare quello che resta di autentico nei nostri centri storici rischia di diventare sempre più superfluo a fronte della progressiva scomparsa, per incuria o per incolta modernizzazione, di ogni elemento non specificatamente vincolato e riconosciuto come “monumento”.
E’ questo un fenomeno generalizzato che riguarda Vetralla come ogni altro centro della Tuscia ed è conseguenza di una sorta di globalizzazione del gusto che tende a tutto trasformare in periferia, in spot pubblicitario, in prodotto riconoscibile come industriale. Molto facilmente si perderanno del tutto le tradizioni locali e le differenze tra insediamenti formatisi in tempi lunghissimi e attraverso l’uso di materiali diversi, a meno che qualche amministrazione illuminata si decida a imporre normative capaci di salvaguardare almeno nelle linee essenziali i valori dello spazio collettivo, dalle pavimentazioni alle facciate, ai superstiti elementi di arredo.
Allo scopo di sensibilizzare non solo gli addetti ai lavori, ma anche i singoli comuni e i cittadini che scelgono - come una condizione ancora oggi oggettivamente privilegiata, e non solo sul piano culturale e sociale di abitare nei centri storici si è avviata, con la collaborazione di “Vetralla città d’arte”, una serie di incontri che ha avuto inizio con il Convegno di Vetralla (21 gennaio 2001) e che proseguirà con una giornata di studio e discussione che si terrà nel prossimo autunno presso la Facoltà di Architettura di Valle Giulia (Università di Roma La Sapienza). La speranza è che possa ottenersi qualche risultato concreto, su temi ormai maturi come la tutela delle pavimentazioni, delle mura urbane, dell’edilizia privata, dei valori paesaggistici.
Nel 2001 il Museo della Città e del Territorio compie 10 anni e, mentre non mancano i riconoscimenti e perfino le imitazioni, è nostro compito rilanciare con maggiore impegno la prospettiva di un’azione che come tutte le utopie, potrà essere ripresa e riscoperta dalle future generazioni.
Enrico Guidoni
Pubblichiamo la lettera inviata al Convegno “Recuperare e abitare il Centro Storico, come e perchè” di Ugo Soragni (Soprintendente ai Beni Architettonici e Ambientali delle Marche) per la particolare attualità anche sul piano nazionale.
L’attuale assetto della strumentazione normativa in materia degli insediamenti storici rivela una significativa cesura tra la pianificazione urbanistica o le esigenze della conservazione, come originariamente pensata dalle “leggi Bottai”, che, nel 1939, intesero invece saldare tra loro salvaguardia monumentale e paesaggistica ed attività urbanistica, nel quadro di un’organica visione culturale.
Nell’originario disegno del 1939 alla salvaguardia dei singoli edifici monumentali avrebbe dovuto affiancarsi la protezione del paesaggio, rivolta non soltanto agli ambiti naturalistici di particolare pregio ma anche a quegli insediamenti che, considerati felice esempio d’integrazione tra dato naturalistico e attività umana, avrebbero potuto giovarsi di una protezione complessiva, ovviamente limitata all’aspetto esteriore delle costruzioni ma concettualmente avanzata e che, soprattutto, in molti casi si sarebbe rivelata capace di governare in modo accettabile il periodo critico della ricostruzione post bellica.
Il caso di Verona è tra i più significativi. Il soddisfacente grado di attuale conservazione del centro cittadino è in gran parte attribuibile alla tempestività dell’azione svolta, tra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo, dalla locale Soprintendenza. Quest’ultima vincolò la totalità del centro antico con la legge sulla tutela del paesaggio, avocando di fatto a sé la quasi totalità delle decisioni in materia di pianificazione post bellica e riuscendo ad evitare che il pretesto delle ricostruzioni conseguenti ai pesanti bombardamenti consentisse uno sconvolgimento ancora più grave degli spazi storici cittadini.
Pur con atteggiamenti variegati fu questa, anche nei successivi decenni, la condotta seguita da molte soprintendenze per i più importanti centri storici, ponendo le premesse per un’attività di controllo sull’attività edilizia ed urbanistica che, ancor oggi, consente lo svolgimento, da parte degli organi di tutela statali, di un controllo sulle scelte degli enti locali in materia di restauro di edifici privati e pubblici e sulle stesse opere di manutenzione della viabilità e delle piazze.
Questa potestà di controllo a posteriori mantiene ancora una sua efficacia, pur nei limiti connessi alla materiale capacità delle soprintendenze di seguire con la necessaria attenzione una mole tanto vasta di progetti della più svariata consistenza e natura.
Il dato si rafforza quando si rifletta sul fatto che, all’inizio degli anni settanta, venne sancita dall’ordinamento la totale separazione tra la materia urbanistica e quella della tutela dei centri storici, con la perdita di qualsiasi potestà dello Stato di intervenire nell’approvazione degli strumenti urbanistici generali e attuativi (piani regolatori, piani particolareggiati, etc.), Demandati alle regioni in sostituzione di un precedente assetto che consentiva agli organismi di tutela di valutarne l’idoneità in termini di conservazione.
L’arretramento storico dello Stato su quest’aspetto della conservazione ha trovato di fatto un dato suscettibile, almeno potenzialmente, di segnare una inversione di rotta. La cosiddetta legge Galasso del 1985 ha importanza non tanto per aver riconosciuto alle soprintendenze una potestà di controllo generalizzato sugli atti in materia di tutela del territorio, in precedenza completamente delegati, dal 1977, alle regioni, ma, ancor più, per aver ricostruito le premesse per un confronto su un terreno che sembrava ormai esclusivo appannaggio di un solo soggetto.
I cosiddetti piani del colore, gli interventi sulle facciate degli edifici antichi, le manutenzioni degli spazi pubblici, etc. Sono argomenti di estrema delicatezza, che non è pensabile vengano affidati, in termini di discrezionalità assoluta, alla sola responsabilità di comuni che non di rado si rivelano, per le più svariate ragioni, condizionati da scelte progettuali improvvisate, distruttive e stravaganti. A condizione che esista un vincolo paesaggistico sulla totalità del centro abitato (e le condizioni, anche amministrative, per promuovere tale sistematica azione di vincolo ora ci sono) tali categorie di interventi possono giovarsi di una fase di ulteriore riflessione, che risiede in un vaglio congiunto stato-ente locale, nel quale possono utilmente inserirsi quelle componenti culturali (l’università, associazioni, singoli studiosi) suscettibili di orientare e migliorare la definizione progettuale dei piani.
Non si deve pensare che questa esigenza si manifesti soltanto per piccoli comuni o per realtà culturalmente periferiche.
In questi mesi la Soprintendenza per le Marche si sta occupando di un piano delle facciate del centro storico di Urbino, vincolato nella sua totalità come bene paesaggistico, il quale prefigura di fatto la generalizzata reintonacatura delle facciate dell’edilizia cittadina, che, in forza di una meccanica coincidenza tra dato filologico presunto e attività di restauro, rischia di cancellare stratificazioni storiche, tecnologie costruttive, immagini consolidate.
La ferma opposizione della soprintendenza a questo metodo arbitrario ed anacronistico, adeguatamente sostenuta dallo stesso ministro nella sua visita in città dello scorso ottobre, ha consentito l’instraurarsi di un confronto sull’argomento di cui non possiamo prevedere gli esiti ma che è stato quantomeno reso praticabile dall’esistenza del particolare regime di salvaguardia, con accortezza istituito negli anni sessanta, sul centro cittadino. Nel formulare i migliori auguri di buon lavoro a tutti i partecipanti al convegno esprimo il mio rammarico per non aver potuto partecipare personalmente, rinviando tuttavia ad una prossima occasione la graditissima opportunità di una discussione su questi temi.
20 Gennaio 2001
Ugo Soragn