I PIRATI DELLA BELLEZZA - NEI LUOGHI DI DEMETRA

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Dopo i consensi riscossi dalla seconda tappa en plein air fra le tombe rupestri di Blera (secondo momento de «I pirati della bellezza – 2015 Anno degli Etruschi») con la loro nuova passeggiata/racconto “all’etrusca” Antonello Ricci e Davide Ghaleb editore si trasferiscono indoor: C’era una volta una rocca... (a spasso fra le eccellenze archeologiche del museo nazionale etrusco di Viterbo) Il terzo appuntamento del ciclo è per domenica 1 marzo. Appuntamento a Viterbo alle ore 10 presso la biglietteria del museo nazionale etrusco di Viterbo (rocca Albornoz in piazza della Rocca). Alla iniziativa parteciperanno Valeria D’Atri (direttrice del museo) e Marina Micozzi (etruscologa dell’Unitus).



SCHEDA DEL LIBRO


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Nell’ambito dell’Anno degli Etruschi
I pirati della bellezza


Una iniziativa Tusciaweb
in collaborazione con
Università degli Studi della Tuscia
e Caffeina Cultura

Con il patrocinio della
Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale

Antonello Ricci e Davide Ghaleb
presentano

I pirati della bellezza – 12 passeggiate/racconto all’Etrusca

Terzo appuntamento
Domenica 1 marzo
Viterbo – rocca Albornoz

C’era una volta una rocca...
A spasso fra le eccellenze archeologiche del museo nazionale etrusco di Viterbo

Appuntamento ore 10.00
presso biglietteria museo

 “Pillole” storico-archeologiche a cura di
Valeria D’Atri
(direttrice del museo)
Marina Micozzi (Archeologa dell’Unitus)

Letture di Pietro Benedetti e Olindo Cicchetti
Percussioni indoor ed en plein air di Roberto Pecci
Racconta e conduce Antonello Ricci

Ingresso al museo GRATUITO. Il biglietto per la partecipazione all’iniziativa consiste – come al solito – nell’acquisto del volume fresco di stampa I pirati della bellezza: romanzo degli Etruschi secondo A. Ricci
o di altro libro a scelta dal ricco catalogo di
Davide Ghaleb Editore

info e prenotazioni tel. 3206872739
(attivo tutti i giorni ore 12.00-13.00)


etruschi-passeggiate@tusciaweb.it



Da Antonello Ricci per Tusciaweb

“Vedi, Antonello – mi fa Valeria – questa non sarà una visita al museo in senso classico. Più un racconto, il dipanarsi di un ragionamento tra siti storie allestimenti, che possa incuriosire i nostri spettatori, spingerli magari a tornare, per un giro completo e approfondito. Questa struttura museale lo merita. Perché purtroppo ancora in pochi sanno che il museo di Viterbo, che ho l’onore di dirigere – Valeria D’Atri è la competente e appassionata direttrice del museo nazionale etrusco della rocca Albornoz, nel capoluogo della Tuscia – custodisce eccellenze di valore mondiale: tesori di cui nessuna altra realtà “gemella”, né Roma né Tarquinia né Firenze, può farsi vanto. Ma si propone anche come uno straordinario crocevia: vera e propria “casa comune” di un ricco quanto peculiare tessuto di emergenze archeologiche sparse su un territorio ancora oggi singolarmente appartato – e forse proprio per questo capace di restituirci con veracità immediata il senso della vita quotidiana dell’Etruria interna, l’Etruria più “schietta”, meno “compromessa” dal progressivo penetrare dei modelli culturali ellenizzanti tipici invece dei centri tirrenici. E proprio questa idea di “casa” ho scelto come fil rouge per la nostra passeggiata. Vieni, seguimi.

Mi fa strada. Dalla imponente maestà della corte bramantesca accediamo, al pian terreno, nel padiglione consacrato ad Acquarossa: sito che ci illustra con dovizia e splendore di dettagli – caso davvero più unico che raro – la “casa dei vivi” nel perduto mondo degli Etruschi. Mentre Valeria mi guida con gusto e sapienza di “cicerone”, vetrina per vetrina, in mezzo a coppi e tegole superbamente decorati, sfilando dinanzi ad abitazioni ricostruite con notevole efficacia pedagogica, con la coda dell’occhio colgo lo scorrere di alcune belle immagini di repertorio, una vera incantagione: si tratta un paio di documentari d’epoca sugli scavi condotti nell’Alto Lazio dalle missioni dell’Istituto Svedese di Studi Classici di Roma tra il 1956 (prima campagna a San Giovenale) e il 1978 (chiusura della campagna all’Acquarossa). Così mi torna in mente re Gustavo. E mi torno in mente io, da ragazzino: certe merende in fondo a cantine umide e mal illuminate, vino pane prosciutto. Quel nome allora – Gustavo – evocava per me più che altro il protagonista di un cartone animato (così bello, povero e poetico) prodotto Oltrecortina. Ma l’appellativo – re – con quello non si scherzava: in quell’ipogeo avvinazzato e affumicato da spirali di toscano avidamente aspirato dagli avventori, i vecchi tombaroli si scaldavano al fuoco dei racconti, fomentandosi a vicenda, finché tutti abbassavano la voce a un sussurro, a una strizzatina d’occhio complice, per poi innalzare fragorose laudi al sovrano nordico col pallino dello scavo archeologico e dei misteri etruschi. Quasi fosse uno di qui, re Gustavo, uno di noi. Qualcuno finiva che s’inteneriva pure, col luccicone a un angolo di volto che pareva anch’esso scavato nel tufo. Gustavo re di Svezia: bastava quell’epiteto e io già sprofondavo, con tutte le scarpe, nel mio privato reame di favola. Ne ero certo: all’indomani, seguendo mio padre in cerca di funghi per sentieri e radure del Lamone, mi si sarebbero fatti incontro Hans e Gretel con le loro disperate mollichine. O Pinocchio impiccato a un ramo della quercia grande.

Con Valeria torniamo sui nostri passi, intanto – si sa: le rocche medieval/rinascimentali non sono certo  moderne villette bifamiliari: un po’ di tortuosità è d’uopo fra le regole del gioco. Dalla corte imbocchiamo ora la solenne scala nobile (anch’essa firmata dal Bramante). Valeria mi precede. Tocchiamo – solo di sfuggita, ahimè – il padiglione di Ferento: l’onore della scelta è anche (e sempre) un faticoso onere e non si può certo pretendere di raccontare tutto e per bene in una sola volta. Di sguincio intravedo, per l’ennesima volta, le pregevoli statue delle 9 muse provenienti, riscoperte all’alba del secolo XX, dal teatro romano locale. Mi riportano alla mente Roberto Rossellini nella Tuscia. Era il 1942: sul set di “Un pilota ritorna” (bello da morire, se non ricordo male, Massimo Girotti nel ruolo del protagonista) succede – cose del genere succedono spesso, ma al cinema – succede che i dintorni di Viterbo diventino un “sogno” di Grecia, quella messa a ferro e fuoco dai raid aerei italiani durante il secondo conflitto mondiale. Mentre  la cavea di un teatro romano collocato nella realtà a 8 chilometri dal capoluogo accoglie per la breve quiete di una notte il precario riposo degli sfollati sotto le bombe. Valeria a questo punto mi sollecita: bisogna ripartire, c’è da completare il nostro sopralluogo. Ferento in pellicola? Rossellini dall’aeroporto “Fabbri” di Viterbo alla Napoli di “Viaggio in Italia” con la svedese Ingrid Berman? Sarà per una prossima occasione.

Ci attende ora la “casa dei morti”, il padiglione dedicato alla stupefacente biga di Castro: fu riportata in luce – era il pomeriggio del 10 ottobre 1967 – da un operaio ischiano sotto l’attenta guida dell’archeologo belga Jean Poupé, direttore degli scavi. Fu in quota Sterbini, proprio di fronte al pianoro della perduta Cartagine della Maremma, la città-bosco che ancora oggi troneggia, dalla corona delle sue boscose ripe, appena di là dal fiume Olpeta (ne approfitto per uno spot: saremo proprio a Castro molto presto, con la prossima passeggiata “all’etrusca”, il prossimo 19 aprile). Un ritrovamento sensazionale, che fece il giro del mondo, mettendo a soqquadro la comunità etruscologica internazionale. Sempre a proposito di storie: questa per me, nella mia infanzia, fu come la vicenda di Cappuccetto Rosso, la conoscevo a menadito, ci sono cresciuto dentro con tutte le scarpe, come un pettegolezzo di famiglia. Ma è ora di fermare questo fiume di racconti che mi torna su. Sennò che resterà da raccontarvi – se non a Valeria, certo a me – domenica 1 marzo?

Un’ultima postilla: la passeggiata si chiuderà sul loggiato di Paolo III Farnese, dove il pubblico potrà ammirare una delle più belle vedute di Viterbo. Sarà proprio da lì che – scostando la tenda ed entrando a piccoli gruppi – potremo visitare la terza città del cosmo etrusco, la “casa degli dei”: la pittoresca ricostruzione – scala 1/1 del sacello rupestre della Demetra di Macchia delle Valli – dove tra veri timpani di tempio e false rupi (prima modellate con perizia da certi miei amici, i “Mancinelli Brothers”, poi magistralmente decorate dall’artista viterbese Rolando Di Gaetani: pittore di vaglia, quest’ultimo, anche se magari quando visita mostre altrui farebbe bene a tenere più basso il volume della voce) siede lei, ieratica e perturbante, dea fra le dee, madre di Kore l’indicibile ragazza: Demetra dea d’orzo e di menta.