… Ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare.
[Giacomo Leopardi, Canzone ad Angelo Mai]
Prima metà del secolo XIX. Che tempi! Moti carbonari nel 1820-21. Insurrezione romagnola e nei ducati nel 1831. Poi le mazziniane Giovine Italia e Giovine Europa. 1848: barricate dappertutto in Europa (di lì, per antonomasia: «fare un Quarantotto»). Anni in cui l'entusiasmo rivoluzionario inevitabilmente si mischiava ai furori di un'archeologia ancora “felice” in quel suo fertile brodo delle origini (ircocervo di rigore filologico e sogni a occhi aperti). Quando l'idea di patria si faceva vanga per dissodare strati e strati di paesaggio culturale – i più profondi – di tradizioni popolari e radici identitarie ultime (il mito delle “origini”) dei popoli. Resti di verità fossilizzate in fiori di lingua volgare, nei miti classici, nei narrati e nei cantati del folklore. Questa la concezione dominante, dai fratelli Grimm al filologo Karl Otfried Müller (morto per insolazione – al sole del Mediterraneo – durante la sua prima campagna di scavo in Grecia: della serie «in archeologia anche il fisico vuole la sua parte»): si pensava, si era convinti che una lingua-popolo-Atlantide perduta (da “restaurare” con l'arte dell'etimo e una scienza nuova consacrata agli slittamenti fonologici), le vestigia di un rito, le tessere residue di un puzzle-mito, una metamorfosi fiabesca, i preliminari-preistorie di un senso comune, di un'abitudine collettiva, permettessero di risalire dal presente dei popoli moderni a un'antichità remotissima (a volte bestioni non ancora civilizzati, a volte arcavoli di civiltà supreme ab origine). E che proprio da lì, da quella antichità, da quella scaturigine sorgiva, per “contatto”, tradotti e trasformati, corrotti e smemorati, tali “istituti” fossero giunti in eredità ad altri popoli e ad altri e altri ancora, secondo un'ininterrotta cinghia di trasmissione culturale. Il sogno indoeuropeo eccetera. Eccetera.
Tempi in cui, più o meno, la via ferrata (questo, alle origini, il nome della ferrovia) aveva già fatto le sue prime apparizioni. Almeno nell'Europa industrializzata (Manchester-Liverpool 1830, poi Londra, Parigi). Ben poca roba in Italia (nel 1839, se non ricordo male, veniva inaugurata la Napoli-Portici). Certo i binari non traversavano ancora la Maremma granducale. Né certo potevano raggiungere, nel cuore dell'arretrato Stato Pontificio, le sconosciute, maestose, impervie necropoli rupestri di Castel d'Asso e Norchia, nei contorni di Viterbo (la plaga d'Etruria più interna e più negletta). Cosicché per mete e “scoperte” periferiche, minori, desuete gli itinerari dei viaggiatori (ancora touristi colti e appassionati, piuttosto che frettolosi-distratti turisti dei giorni nostri) si dipanavano tuttavia in carrozza – quindi: per poste – culminando non di rado a dorso d'asino.
Intanto viaggiando, soggiornando-esplorando, acquarellando-cartografando, scrivendo e consegnando alle stampe i loro diari e resoconti, molti di quegli stessi viaggiatori – per lo più, ma non soltanto oltramontani – contribuivano a far sempre più scemo (leopardianamente) il mondo: perché la terra il mare il cielo assai più vasti al fanciullino appaiono che non al saggio. È la logica implacabile della modernizzazione a tappe forzate. Il contino di Recanati l'aveva ben capito, fin troppo e troppo in anticipo sui propri tempi: walser, gazzette e ferrate vie principiavano a stringere sui popoli la morsa implacabile dell'omologazione planetaria («universale amore, moltiplici commerci»: et voilà). James Barrie e Peter Pan erano ancora di là da venire: cosicché l'ostinazione del fanciullino-poeta a mantenere spiegato l'orizzonte del mondo era ancor sospinta a scovare ricetto e asilo piuttosto nelle memorie del classico, nei paesaggi del pittoresco, nei trasalimenti del sublime romantico.
Ma dicevamo di Castel d'Asso, presso Viterbo.
Francesco Orioli per primo ne aveva offerta notizia alla comunità scientifica archeologica, era il 1817-1818 (riprendendo in mano precedenti ricognizioni e spogli condotti insieme col domenicano “querciaiolo” padre Pio Semeria).
A breve gli avrebbero fatta eco, puntualmente-esplicitamente citandolo, i protagonisti anglosassoni del grande romanzo romantico europeo di una Etruria-infanzia sconfitta e perduta e solo ora, finalmente, ritrovata. Prima una donna (e che donna!): Mrs. Elizabeth Caroline Hamilton Gray (il suo Tour data al 1839); poi il diplomatico, esploratore e archeologo George Dennis (Città e necropoli dell'Etruria data al 1848).
Ebbene, è emblematico che – proprio al piede dei solenni prospetti sepolcrali incisi nel tufo vivo, a poche miglia dalla Viterbo di allora – tutti e tre finissero per “ritrovare” l'Egitto: Biban El-Moluk, la Valle dei Re.
A noi lettori di oggi questo ingenuo paragone fa sorridere; ma in quel tempo di continue scoperte (inattese e stupefacenti), di ravvisate (per quanto approssimative) somiglianze tipologiche e tecnico-costruttive, di ossessioni filogenetiche, la domanda era – più che plausibile – ineludibile: da quale infanzia dell'uomo era pervenuto alla civiltà questo o quello stile? Chi per primo lo aveva coniato? Chi lo aveva appreso per imitazione? Quali le direttrici-rotte attraverso cui esso aveva potuto diffondersi da un popolo all'altro? In tema di sepolcri monumentali, dai giorni della campagna di Napoleone (militare e di scavo) e della scoperta accidentale della Stele di Rosetta, l'Egitto era all'ordine del giorno, vero e proprio archetipo di un'infanzia dei popoli, primordiale attestazione dell'umano consorzio. Non a caso, qualcuno avrebbe poi scritto che – nella mente di Champollion – gli antichi Egizi fecero rima con Uncas e Chingachgook, gli Ultimi dei Mohicani.
Ma intanto. Sfogliando i primi scritti di Orioli sul tema dell'architettura funebre rupestre degli Etruschi, ci si rende conto che proprio suo era stato il “la” à la egizia su cui tutti gli altri, immediatamente e senza esitazioni, erano venuti ad accordarsi. Ma anche più intrigante è scoprire che proprio l'ipotesi da lui formulata sul transito e l'approdo di una presunta comune modalità monumentale funebre dalle sponde del Nilo, attraverso l'Egeo e il Mediterraneo, fin sulle coste tirreniche della penisola italica (quando ancora dei 3 stili della Grecia classica né tanto meno di Roma poteva esservi idea, se non in mente Dei), andava a raccordarsi con un mito imperante e un dibattito accesissimo presso la comunità archeologica del tempo (da Petit Radel alla scuola tedesca): quello delle-e-sulle mitiche migrazioni pelasgiche dall'Asia minore; Pelasgi i quali, in età addirittura anteriore alla guerra di Troia, tirando su dappertutto le loro mura megalitiche (da Alatri a Monte Circeo, fino ad Amelia) avrebbero colonizzato-civilizzato gran parte della ancora trogloditica Italia centro-meridionale. Qui poco conta che le successive acquisizioni scientifiche avrebbero dimostrato la natura favolosa e quindi ingannevole di tali convinzioni. Conta invece che il pensiero europeo, glissando le proprie radici classiche, cominciava a sentire urgenza di “sfondare” dabbasso – per carote geologiche – la superficie dello status quo del proprio presente, disseppellendo (e rievocando ad arte) certe rovine di una storia prima-della-storia, di una vicenda-esperienza infinitamente più remota e sconosciuta rispetto a quella dell'Atene classica o dell'alba di Roma sui suoi sette colli. Storia presso cui, innumerevoli e grandi, filosofi poeti pittori presero ad attingere linfa per le rivendicazioni di popoli e classi subalterne che proprio a quel passo epocale ricercavano-rivendicavano nuove fondamenta identitarie: per affacciarsi con dignità dai sottoscala della Storia ai piani nobili delle Magnifiche Sorti e Progressive. Solo che, proprio mentre ampliavano lo spettro tellurico delle profondità storiche etnico-antropologiche, quegli stessi artisti contribuivano a rimpicciolire il mondo. Lo spoetizzavano, spianando così il terreno a Le voyage e all'Albatro di Baudelaire. Al Battello ebbro di Rimbaud. Alla nostalgia moderna per una Natura da-sempre-perduta ma mai esistita. Ai miti del decadentismo e dell'inconscio psicoanalitico. Insomma, all'avventura del Novecento tutto.