IL LIBRO DELLE PASSEGGIATE 2013 e altri paesaggi narrati «surplace» ANTONELLO RICCI |
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Andare a spasso nella Tuscia viterbese. E imbattersi per via in Ludovico Ariosto, Giuseppe Gioacchino Belli, Annibal Caro, Charles Dickens, Vincenzo Cardarelli, Giovan Battista Casti, Dante, Francesco d'Assisi, Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Luigi Pirandello, Francesco Petrarca, Mario Praz, Alberto Sordi, Bonaventura Tecchi, Totò, Orson Welles, Andrea Zanzotto etc., nonché in una manciata di nativi che rispondono ai nomi di Domenico Birelli, Spartaco Compagnucci, Ireneo Melaragni, Nello Marignoli, Pietro Rossi, Carlo Vincenti e tanti altri. Non si contano i protagonisti delle passeggiate racconto, inventate «sul principio dei Duemila» da Antonello Ricci. Capace di riunificare sulla sua minuta figura di aligero folletto, da un lato i ferri del mestiere dell'italianista, del docente di Lettere e Storia, dello studioso di Odeporica e di Antropologia, dello scrittore e poeta; dall'altro, la naturale linfa dell'affabulatore che fa il paio con l'ispirata pulsione all'istrionismo che di volta in volta lo fa trasfigurare in menestrello, giullare, cantastorie, performer, fine dicitore, incantatore. I testi qui raccolti non sono altro che i canovacci che Ricci ha utilizzato nel corso del 2013 per condurre numerose camminate nella Città dei Papi e in altri borghi dell'Alto Lazio. Deambulazioni – ma sarebbe meglio definirle esplorazioni nella storia e nella natura – punteggiate dalle improvvise e stupefacenti epifanie di scrittori, poeti, attori, registi etc. che hanno legato la loro presenza e la loro opera agli spazi urbani e rurali ricompresi nei confini del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, attingendo a piene mani al genius loci di una terra antica, dove è facile perdersi in vie e piazze che ancora odorano di Medioevo ovvero, per dirla con Pier Paolo Pasolini, immergersi nei paesaggi più belli del mondo, «dove l'Ariosto/ sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta/ innocenza di querce, colli, acque e botri.» Come sono costruiti i canovacci del Menestrello? Dall'intreccio dei lasciti-guida di tre suoi maestri (almeno così ritengo) di scrittura. Il primo: Carlo Dionisotti, insigne filologo e critico, che nel suo volume più noto, Geografia e storia della letteratura italiana, teorizzò la necessità di collocare, sia nello spazio che nel tempo, l'analisi dei fenomeni letterari (e per estensione, artistici tout court). Il secondo: Giampaolo Dossena, scrittore, giornalista, nume tutelare dei giochi, massime quelli con le parole, che nei quattro volumi della Storia confidenziale della letteratura italiana insegnò l'arte della divulgazione giocosa e gioiosa, sorretta va da sé dall'erudizione e dalla sapienza. Infine, ma non d'importanza, Italo Calvino, che in una delle sue postume Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, quella dedicata alla «Leggerezza», confessava che il suo lavoro era sempre stato caratterizzato «dalla sottrazione di peso alla struttura del racconto e al linguaggio». Ricci ha ben metabolizzato quegli insegnamenti. E nel passaggio dalla lingua orale a quella scritta, ha saputo scialbare a dovere e rendere scintillanti le sue bagattelle, facendosi «fabbro capace di sublimare il suo parlare materno in grimaldello critico, in lingua di universale dignità», e regalandoci così un livre de chevet di rara intensità.
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