BIENNALE D'ARTE CREATIVA VITERBO 2014 VOL. 2
Nel profondo. Dal bianco come il ghiaccio al nero come la pece
HOME COLLANE EVENTI PRODUZIONI MUSEO
LIBRI ON-LINE FILMATI NOVITÀ CONTATTI

Nel profondo. Dal bianco come il ghiaccio al nero come la pece
Giovanna Caterina de Feo

Settembre 2013
Era qualche anno che mancavo da Viterbo, una città che amo e che suscita in me ricordi molto lontani, legati all'infanzia; mi ci hanno riportata un gruppo di amici e giovani artisti, alla fine di settembre dello scorso anno, quando ci siamo incontrati per la prima volta, in piazza San Lorenzo davanti a Palazzo dei Papi, per propormi di aiutarli ad organizzare l'edizione 2014 della Biennale d'Arte creativa.
Il titolo del concorso era già stato stabilito da Laura Lucibello: “un percorso al buio tra labirinti e specchi”, nelle intenzioni uno spunto per meditare sull'oscurità dei tempi odierni, sulla difficoltà di orientarvisi e sulla conseguente necessità di non arrendersi e reagire: “non basta denunziare è necessario PROPORRE”, (scritto proprio così, a carattere di scatola) trovo, infatti, enunciato nel progetto.
Così, sulla scia di quella suggestione, ho subito pensato che quell'idea espressa per il concorso, poteva anche “rispecchiare” la genesi della mostra, nella quale pure gli artisti avrebbero dovuto attivarsi e chiamare a loro volta altre persone, con le quali sentivano di avere qualche tratto in comune; inoltre avrebbero potuto decidere autonomamente quale opera presentare, così il percorso sarebbe stato “al buio” anche per me.
Decidemmo subito e in un primo pomeriggio ancora assolato, seduti ai tavolini di un bar deserto, ho chiesto ai miei accompagnatori di allora - Laura Lucibello e Flavio Tiberio Petricca - di scrivermi quali artisti avrebbero voluto invitare se ne avessero avuto la possibilità e quei nomi, abbozzati su un foglietto di carta passato di mano in mano, hanno costituito la base da cui partire e riflettere.
Dalle loro proposte ho proceduto intersecando le mie, fino a che la lista è diventata un progetto concreto, a cui tanti artisti hanno aderito con entusiasmo, inaspettato e gratificante, che ci ha contagiato e fatto si che ci adoperassimo con maggiore impegno per superare le molte difficoltà che quasi sempre sorgono nella realizzazione di una mostra.

Gennaio. Primi incontri, discorsi, atelier e sopralluoghi
La vitalità artistica viterbese è testimoniata in questa mostra da Pasquale Altieri, Federico Paris e Marco Zappa artisti di età e tendenze molto diverse che ci accolgono, insieme ad Andrea Aquilanti e Anita Calà, in una mattina di gennaio.
Lo studio di Pasquale Altieri ci si presenta in tutta la sua apparente confusione. Sistemate alla meglio, ovunque, si intravedono sue opere: alcune sono state smontate e conservate in un primo ambiente, altre sono in via di realizzazione, in parte custodite in una seconda stanza. Sono assemblaggi, ovvero sculture capaci di generare associazioni mentali tramite l'accostamento di oggetti diversi e inconsueti e di offrirne un racconto sotto forma di allegoria, una tecnica utilizzata sin dal tempo delle prime avanguardie del Novecento.
Indecisi tra la descrizione di un unicorno rivestito di morbida stoffa blu e quella della bambina che cammina bendata e pericolosamente in bilico, decidiamo infine di presentare TuttoNellaMente, un'opera dai tratti consapevolmente amari, nella quale un uomo-giocattolo sembra essere obbligato a muoversi solo secondo l'oscillazione prevista dall'andamento del cavalluccio a dondolo. Un gioco da adulti, con un movimento in fondo sterile, o verso l'alto o verso il basso, che non prevede si possa andare avanti. Anche il fioco messaggio di speranza contenuto nella possibilità che dalla mente dell'uomo germoglino sorprendenti e vivi arbusti fioriti, è subito attenuato dalla consapevolezza che i fiori potranno continuare a vivere solo se verranno innaffiati.
Diverso è lo studio di Federico Paris e più immaginifico è il suo messaggio; di qualche anno più giovane di Pasquale, egli solitamente dipinge grandi quadri nei quali dà vita a creature fantastiche metà donne e metà farfalla con le quali popola il proprio universo poetico. In mostra presenta “La bellezza sta arrivando... fatti trovare pronto” una video installazione del 2010, dove immagini psichedeliche ispirate alle macchie e ai colori delle ali di farfalla sono proiettate su sagome di garza e filo metallico sospese per aria.
Ancora differente è la poetica di Marco Zappa, che lavora nei pressi di Viterbo, in un grande locale immerso nel verde dei boschi Cimini, dove conduce i suoi studi sulla figura umana e realizza quadri tridimensionali, come questa città in scatola, deserta e luminosa.

Si parla del bianco: come il ghiaccio, l'alba, la plastica
Quel sabato mattina di gennaio, quando ci siamo incontrati per la prima volta con Anita Calà, lei ha proposto un lavoro inedito realizzato nel 2013 che si intitola Un cane sciolto non sa dove andare. Consiste nella proiezione continua di un'ombra umana a grandezza naturale che percorre le pareti di una stanza, finendo per interagire tanto con lo spazio circostante quanto con le eventuali persone che vi entrano, le quali, a loro volta, possono diventare inconsapevolmente e momentaneamente sia spettatori che attori dell'opera. Ma solamente nel caso entrino nel luogo e vengano così a trovarsi sullo stesso asse dell'ombra che viene loro proiettata addosso, perché l'ombra (l'opera) vive al di la di loro, di noi, ed esiste comunque, anche in assenza di spettatori. L'ombra, costretta nel proprio tragitto (destino), rischia forse di passare inosservata, perfetta metafora dell'arco vitale di ciascuno di noi.
Altri artisti propongono lavori con i quali riflettono sulle difficoltà di relazione tra l'essere umano e i suoi simili. Come Les Phrases Cachées di Veronique Vergari che descrive tale incomprensione con un grande dado, una metafora del gioco, composto da sei fotografie tratte da un video girato in superotto in cui due persone danzano e quasi si rincorrono senza mai toccarsi.
Invece il Libro della tempesta di Annalù Boeretto, è un grande albero con le fronde a forma di pagine di libro, una trasparente visione realizzata in resina, apparentemente leggera, fermata, cristallizzata prima del suo divenire un'altra forma ancora. Valerie Telesca, membro del movimento internazionale “Energy Tracks” che ricerca sui processi fisico-chimici sulla materia, gioca anche lei con forme leggere e trasparenti, lasciate vivere nello spazio, mentre Silvia Faieta, ingegnere e artista visionaria, con N.O.V.E. costruisce con perizia una sorta di inconscio tridimensionale, una struttura escheriana formata da un'inquietante scacchiera che accoglie nastri, dadi e pianeti in difficile equilibrio, che bene simboleggia la perenne ricerca dell'artista verso un ordine interiore. Infine Box Lecca lecca Skkinnhand di Santa Seveso che evoca spensieratezza con i suoi lollypop incartati nel chelofan, chiusi da nastri e disposti con cura su una base bianca come su una bancarella da fiera. Ma il prodotto dolciario SantaSeveso italiano, è una poetica solo apparentemente accattivante perché su quella che dovrebbe essere la superficie del dolce è confezionata l'impronta della pelle della sua mano, come se fosse una matrice, creando un sentimento di assoluto spaesamento e inquietudine.
Il colore bianco, l'uso di materiali sintetici – quali la plastica e il pvc - l'assemblaggio e la ricerca tridimensionale è un tratto comune ad altri tre lavori. Il primo è di Flavio Tiberio Petricca, giovane artista sognatore, che col suo entusiasmo ha costituito uno dei punti di snodo di questa esposizione segnalando anche molti suoi coetanei. Qui propone una serie di bianchissimi Mushrooms, tratti da quello che lui ha denominato il “My garden synthetic”, un suo mondo ideale in cui dà corpo a strane forme di vita, fiori, piante, muschi e paludi. Ideali, perfetti e candidi elementi dalle lontane ascendenze naturali, realizzati con materiali di nuova generazione - quali il Dacron, il polietilene, il poliuretano e il silicone - nei quali affiora talvolta il rosso, a ricordare i suoi precedenti studi condotti sul peso specifico del colore.
La pallida Regina Mab di Franco Losvizzero, è ispirata dalla shakespeariana fata bianca e dorata che turba i sogni degli uomini. Qui mostra le mani insanguinate, non solo metaforicamente: sembra che l'artista l'abbia posta a guardia del limite tra razionale e inconscio, allo scopo di introdurci in una dimensione surreale dove la deformità esteriore non è altro che una maschera, dietro alla quale si nasconde la ricerca della purezza e dell'autenticità di chi si pone al di là della forma estetizzante che governa la nostra quotidianità. È Elephant man che diventa opera d'arte, ma siamo tutti, potenzialmente, John Merrick; a patto di non nasconderci la nostra vera essenza e di accettare il “mostro” che è in noi.
Uguale inquietudine possono suscitare gli organismi pluricellulari di Cristiano Petrucci, che organizza il proprio mondo privo esseri umani entro uno spazio angusto e trasparente, illuminato da un led artificiale. Ignote presenze e figure fantastiche popolano anche l'universo di Leonardo Nazzareno Enea che si dedica al completamento di una lunga carta, traendo ispirazione da brani di musica rock progressive; al momento è un rotolo di quasi quattro metri e, se lo si guarda con attenzione, si intravede nel tessuto pittorico, tracciata ogni singola nota, ogni pausa e ogni accordo.
Anche David Tozzi ascolta musica mentre lavora, come in A l'envers à l'androit, un quadro che deve il suo titolo al brano del gruppo francese “Noir Désir”, in cui è rappresentato un mondo al contrario, dove le rocce sono morbide come pellicce e gli animali sono alberi, dove “Prière pour trouver les grands espaces entre les parois d'une boîte” (o di un quadro, vorrei aggiungere io).
I suoni che il musicista Edu Nofri, trae dalle fragili e trasparenti installazioni di vetro di Ilaria Sadun commentano La Campana, un video di Ruslan Ivanytskyy, scultore e incisore ucraino attivo da tanti anni a Roma, che per la prima volta si cimenta con questa modalità espressiva. Il video intenso e poetico è realizzato sul sagrato di Piazza San Lorenzo, davanti al Palazzo dei Papi, e racconta di un gioco di bimba e del trascorrere del tempo, ma l'incalzare dell'attualità lo ha spinto anche alla realizzazione del disegno La battaglia dei rivoluzionari ucraini che oggi ha deciso di presentare: un fitto tessuto di tratti di penne colorate tra i quali di tanto in tanto spuntano fiori.

Si usa la terra, il ferro, l'oro e l'acqua
Pure le sculture di Barbara Salvucci sembrano inflorescenze. Ero andata a trovarla nel grande studio di Gioacchino Pontrelli, che la ospitava per lavorare alla mostra, dove aveva armato due grandi strutture di ferro ricoperte di materia fino a formare delle grandi calle, come acquasantiere, accartocciate e nascenti direttamente dal pavimento – una nera e l'altra blu che forse colmerà di miele - sono forme stanno per schiudersi (o per chiudersi), in attesa di divenire un'altra cosa o dopo esserlo stata. Anche Alfredo Zelli con la Dafne riflette sulla mutazione e sceglie di lavorare sulla trasparenza per raccontare il cambiamento della ninfa, proprio nell'istante in cui il suo viso si sta cambiando in albero, con un ramo che le fuoriesce dalla bocca; l'istante in cui il viso, le radici e le foglie diafane, sono fatte per un momento tutte della medesima essenza.
Un inno allo stato primordiale, al prima, alla creazione dell'universo sono le opere dello sperimentatore Pino Mascia, con “Rattan”, una carta realizzata con pigmenti fosforescenti, polveri metalliche e patine. Più vicini all'elemento terrestre sono Alexia Manzoni Porath, con un'installazione formata da sfere di diverse dimensioni e colori fatte da sei differenti argille, e Tommaso Cascella con Colonna, una possente scultura del 2013, dove il ferro è ridotto a puro segno grafico, nel quale forme geometriche, linee verticali e orizzontali si intersecano con spezzoni di cerchio che sembrano tracciati nello spazio e posti in equilibrio dinamico.
Jacopo Mandich lavora con materiali riciclati e ne fa, prima che una questione di stile e di etica, un mezzo per salvaguardare il mondo esterno, sé stessi e la propria interiorità; qui propone una grande struttura di quasi due metri di diametro, realizzata con diversi materiali di recupero: ferro e legno che sono stati riportati dall'artista a nuova vita, al loro stato primordiale di elemento puro e armonico. Si legge sull'enciclopedia che il cheloide è un tumore benigno, un'escrescenza che segna come una cicatrice la pelle. Il Keloide alchemico errante di Mandich è un'escrescenza mentale che si pone nello spazio e ha come scopo quello di far riflettere. Dà da pensare anche Uncomfortable di Davide Dormino, dove ogni sentimento consolatorio è totalmente assente. È una scultura caustica formata da una lastra di ferro su cui l'artista ha tratteggiato la silhouette di un uomo in piedi su una poltroncina appena accennata, dalla quale si direbbe che lo scomodo sia, prima di tutto, la conseguenza di un atteggiamento mentale piuttosto che di una posizione fisica.
Invece le opere del giovane artista spagnolo Pablo Mesa Capella sono un inno alla memoria. Pablo usa le vecchie fotografie reperite nei mercatini antiquari di tutto il mondo; lo ha fatto come se fossero mattonelle nell'installazione sulle mura esterne del Pastificio Cerere a Roma (da cui tracimavano fino a invadere l'intero quartiere), oppure le ha ritagliate e composte entro teche trasparenti, così da formare microcosmi fantastici. La prima volta che ci siamo incontrati, è stato a Roma, in un piccolo bar nei pressi di Piazza Campo de' Fiori per parlare del suo lavoro; con un occhio alla sua bicicletta appoggiata al muretto e uno al computer dove facevo scorrere le immagini del Palazzo, piano piano le teche che avrebbe dovuto realizzare diventavano prima una, poi due, poi tre...e nella sua mente - e nella mia – alla fine ben sette campane di vetro contenenti quei suoi mondi segreti e poetici hanno trovato il loro posto in questa storia.
Nello studio di Maria Pia Picozza a Galla Placidia, ho trovato allestito un volo di uccelli di filo di ferro cotto, una parte dell'installazione Uno stormo di storni che tanto mi era piaciuta quando l'aveva presentata al premio Terna. È un'opera che nasce dall'osservazione del volteggiare degli uccelli nel cielo di San Lorenzo a Roma, formata da decine di sculture che hanno l'immediatezza dello scarabocchio, il cui tratto di penna è mutuato dal filo di ferro. Si tratta di una fuga, di un estremo tentativo di evasione, che è al tempo stesso invasione. “Un atto al contrario” dice Maria Pia.” Un tutt'uno originato da un'unica matassa, dalla medesima matita che, come un flusso continuo lega i vari elementi”. La versione in mostra è un'installazione interattiva, frutto della collaborazione con la compositrice Eli Natali che rielabora la fuga musicale, una composizione polifonica astratta e in qualche modo casuale che si attiva al passaggio dello spettatore.
Il palazzo dei Papi è, poi, l'ambientazione perfetta di Oro di Roberto Pietrosanti, allestita lungo le catene passanti per la grande sala, è un'opera realizzata nella rigorosa monocromia tipica del suo lavoro, fatta di leggere lamine dorate su cui ha intagliato delle scaglie, capaci di intercettare la luminosità, obbligandola a incresparsi, a riflettersi l'una nell'altra o a deviare nel buio, come un limpido bagliore nella penombra.
Alcuni artisti riescono a fermare un attimo irripetibile e a renderlo eterno e ripetibile. Basta guardare una scultura di Gregorio Botta per capirlo, ad esempio The young english poet, che nasce dalla suggestione della frase “Qui giace qualcuno il cui nome fu scritto nell'acqua”, l'epitaffio sulla tomba del poeta inglese John Keats. Agli elementi primari della sua poetica – che sono l'acqua, il fuoco, il ferro, il vetro, la cera – Botta aggiunge con quest'opera il tempo: il tempo del movimento dello scrivere, il tempo del suo svanire e il tempo del nostro osservare; è un'opera che si pone perfettamente sul confine tra il razionale e l'inconscio, una specie di inconscio consapevole come è la poesia, che da molti anni è una componente essenziale della sua opera.

Colori. I Rossi: scarlatto, vermiglio, magenta, carminio, porpora. I blu: cobalto, indaco, azzurro e acquamarina.
Nello spazio raccolto e monastico dello studio di Antonello Viola sfoglio una ad una le bellissime carte dell'ultimo periodo, sono raggruppate per serie e per colore, delicate e preziose come pietre dure che recano incastonati brevi bagliori dorati. Poi le tele, nelle quali, come nelle carte, il colore è definito inflessibilmente entro lo spazio che lui gli ha concesso, ed è meditato, stratificato e lievemente materico. Decidiamo infine per Garance Foncé, un grande quadro di pigmento rosso talmente intenso e sedimentato che guardandolo da lontano sembra composto da un unico colore, invece poi, proprio come avviene nel dormiveglia quando riaffiora un ricordo, mano a mano che ti avvicini inizi a scoprirne le patine e tutte le impercettibili sfumature e incrostazioni della pittura. Di ogni singola pennellata, precisa come un respiro.
È rosso anche per Primarosa Cesarini Sforza per un'opera commentata da tratti di bianco, e da tutte le gamme del colore, formato con il filo di seta a rocchetti comperato nei bazar del Marocco. Le sono serviti per ricamare la grande tela con una moltitudine di piccole teste di uccello, dalle quali il filo sembra fuoriuscire quasi come una colatura di colore verso il basso, come se fosse una gouache sanguinosa, di colore più denso o più chiaro a seconda dei toni scelti e ogni volta che la fibra si annoda, si snoda, si apre, oppure si attorciglia.
Spesso Laura Barbarini dipinge per serie, su carta come nelle recenti Vicino all'acqua o su tela come in Tra i rami; dipinge elementi fitomorfi non bene identificati che alle volte si specchiano in acquitrini: forse sono alghe, forse fiori, forse rami. Tuttavia nonostante la tematica Laura è distante da un qualsiasi spirito realistico o naturalistico, e anche impressionistico (come solitamente si tende a definire un artista appena questi non usi il nero e la pennellata sia più gagliarda); mi sembra, semmai, un'artista modernamente postimpressionista dove il soggetto è innanzitutto un pretesto, uno spazio mentale, una palestra, per riflettere sulle possibilità espressive di ogni colore nella forma e nella luce.
Invece Alessandra Giovannoni dipinge ciò che vede. Procede proprio dalla realtà. Lo so perché l'ho vista tante volte nel silenzio del suo studio, sul terrazzo di un palazzo del quartiere Trieste, elaborare grandi tele che recano anche l'appunto del giorno e dell'ora, partendo da quelle che definisce le sue memorie visive, degli appunti fuggevolmente tratteggiati dal vero su piccolissimi taccuini. Recentemente il suo sguardo indagatore è tornato a meditare sulla figura umana, semplificata in forme e volumi come nei suoi primi Camminatori, dopo un lungo periodo in cui è stata attratta piuttosto dalla luce e dall'atmosfera; con Nuotatori ora guarda all'acqua. Il pretesto è offerto da lunghe nuotate in piscina: Alessandra nuota ad occhi aperti.

Nero come la pece, scuro come il bitume, la terra, la notte
La Foresta di Paolo Picozza è in realtà la prima opera che ho desiderato esporre in questa mostra ed è l'unica che ho scelto. Probabilmente per il fatto di essere a Viterbo mi è tornato alla mente un grande quadro che gli ho visto dipingere quasi dieci anni fa, una monumentale tela, capostipite di una serie di “foreste” che da allora in poi avrebbe dipinto, e uno dei primi quadri con cui si allontanava dalla pittura urbana che gli era congeniale per considerare anche l'ambiente rurale, in particolare un versante del bosco di Montefogliano (VT). È un'opera che per la grande mole è stata poco esposta: lunga all'origine circa sette metri e alta due, si può dire che La foresta, non sia più un luogo reale, ma sia soprattutto un luogo dell'anima, dove il colore si è fatto forma. Nonostante vi siano raffigurati alberi e tronchi è un mondo altro, interiore e totalmente antinaturalistico. Non è suggerito, non è ipotizzato, è “costruito”, ed è un'opera che, oltretutto, implica una diversa considerazione per la dimensione fisica del lavoro del pittore, il cui gesto qui è quasi atletico.
Quando l'ho vista la prima volta – con Francesca Antonini per i preparativi di un'Artefiera di Bologna - prendeva per intero una parete del suo enorme studio. Ricordo di aver pensato che
per guardarla, ci voleva tempo: si poteva scorrere da vicino, camminandoci accanto, come se fosse un pezzo di strada e scoprirne via via la rugosità dei materiali, delle stratificazioni; ma anche una frazione di secondo, con la dovuta ampiezza, da lontano, quando, invece, bastava un battere di ciglia.
Nel dipingere questo suo mondo in chiaro scuro, Paolo usava colori cupi e materie forti, come forte era il suo temperamento, ma riusciva ad essere gentile, poetico e lieve nello stesso tempo, come sono ancora oggi lievi e poetiche le parole che sono ridotte a puro segno grafico - ma sono pur sempre parole – e di tanto in tanto si trovano tracciate nelle pieghe nascoste della sua pittura.
Quasi coetaneo e amico di Paolo è Alberto Zamboni che vive e lavora non lontano da Bologna in un grande studio, dove dipinge, disegna e suona. Lo conosco da abbastanza tempo per accettare con entusiasmo un lavoro completamente nuovo che si intitola Il viaggio di Annibale, dove mette in pratica i suoi recenti esperimenti con la serigrafia.
L'elefante effigiato sui quattro grandi medaglioni tondi che mi ha inviato è una sagoma essenziale assunta a testimonianza del viaggio del condottiero, ma è anche traccia del viaggio pittorico dell'artista che in quest'opera riesce a sintetizzare sia la propria tendenza alla pittura monocroma, che è la sua cifra stilistica, sia la passione per l'illustrazione e per il disegno, che gli proviene dalle letture preferite, di viaggi epici e d'avventura; perché, mi scrive Alberto: “l'elefante che attraversa le Alpi è pur parente della lucente e imprendibile Moby Dick”.
Nonostante conosca il pittore Maurizio Pierfranceschi da molti anni, non ero mai andata a trovarlo a studio prima d'ora: mi riceve in una stanza dove tiene ordinate tante tele, tra cui quelle grandi blu, della serie esposta da poco alla Temple Gallery. Parliamo del più e del meno, poi mi scorta in un'altra stanza dove, a favore di luce, ha posizionato sul cavalletto un grande quadro molto intenso e scuro, dipinto qualche anno fa. È un gruppo di persone dolenti immerse (o emerse?) nell'ombra, Il compianto, è un'immagine antica come il dolore, quasi sacra, nella quale l'intero mondo è ammantato di scuro, e ogni cosa sembra di essere sul punto di sciogliersi e trasformarsi in una materia primigenia, nella notte o nella terra. Solo l'orizzonte del quadro resiste colorato, e reca la traccia abrasa di strati e strati di sofferta pittura.
Sono scuri anche gli ultimi quadri di Vincenzo Scolamiero. Per questa mostra mi propone un dittico nero e oro che si intitola Per sottrazione e rappresenta il portato ultimo del suo lavoro, fatto di impronte di fiori di acanto, e di ampi gesti pittorici con i quali è capace di tracciare iperboli equilibrate, precise e nette quasi come una calligrafia. Non è un caso che Enzo sia amico di Elisa Montessori, un'artista che da sempre si è interessata alle culture orientali. Affascinata dall'haiku, il breve componimento poetico giapponese formato da tre versi, sembra volerne trasmettere sulla carta la stessa intensità poetica e una simile sintesi di pensiero in questi due grandi rotoli di carta catramata intitolati Sarabanda, come la mostra in cui sono state recentemente esposti a Roma nella Sala della Crociera, nei quali nascosti tra impronte di colore dorato e segni grafici astratti, sembra di indovinare elementi naturali, farfalle e figure.
Infine Matteo Montani che dipinge La fine delle nostre paure con l'olio su carta abrasiva, spandendo con un largo gesto ampie pennellate di colore più o meno diluito sulla superficie ruvida che a tratti lo trattiene, lo raggruma o lo dilava, ed evoca un paesaggio, algido, interiore, una sorta di astratta apparizione, una nuvola o una terra promessa.
Per questa mostra ho incontrato Andrea Aquilanti più di una volta. Gli ho descritto il progetto, man mano che diventava più definito, abbiamo perlustrato le sale del Palazzo dei Papi alla ricerca dell'ispirazione per una videoproiezione con cui avrebbe stravolto il luogo e ne avrebbe proposto una propria lettura dello spazio e della sua storia, ne avrebbe tratto una visione in bilico tra una realtà ipotetica e una finzione verosimile, come il suo Autoritratto allo specchio. Meditabondo ha considerato ogni possibilità e alla fine ha deciso di allestire in un grande ambiente suggestivo, con il soffitto a botte e le mura scabre ricche di rientranze e nicchie, al quale si accede scendendo una breve scaletta, quasi sprofondando ancora. È uno spazio difficile, un antro complesso con una forte carica spirituale, colta anche da Bruno Ceccobelli che vi ha montato le Pescolle, un'opera realizzata appositamente per questa mostra, fatta di vetro e tela di juta, incentrata sul ricordo e sulla memoria. Evocano l'età dell'innocenza le impronte di piedi nudi nelle pozzanghere, ciò che resta dopo un'acquazzone nelle strade di campagna.
Conosco Andrea Fogli da molti anni, più o meno da quando conobbi Andrea Aquilanti, almeno una ventina. Lo studio di Andrea (Fogli) sembra ricoperto da un impalpabile strato di polvere, illuminato com'è dalla luce radente che entra da una grande porta finestra affacciata sul cortile interno di un vecchio palazzo. Nell'ambiente sul fondo si intravedono opere in lavorazione, accuratamente coperte e, ovunque, cataste di libri in apparente disordine; colori e frammenti di cose, una grande conchiglia; in un angolo pende una collana indiana di fiori ormai seccati. Scegliamo di esporre la serie delle Nature che già avevo visto nella sua mostra a Villa Torlonia. Non so perché per la prima volta mi viene da chiedergli se conosce i disegni del biologo darwinista Ernst Haeckel, lui sorride e annuisce (è la prima persona che incontro qualcuno che conosce le Kunstformen der natur, pubblicate in Italia come “Forme artistiche della natura” nel 1901). Dopo un poco arriva Marilù Eustachio. Sono amici e complici, si fumano una sigaretta parlando del più e del meno. Io assisto in silenzio e alla fine, guardandomi di sottecchi con un'aria un po' di sfida, Marilù mi dice: “ho appena finito due grandi carte. Sono due alberi. Porto quelle”. Va bene, dico io, e penso che sia quasi un destino, e che il percorso al buio ideato da Laura Lucibello è stato, infine, illuminato.
Ora so che gli Alberi – Visioni proposti da Marilù concludono il percorso della mostra, ma nello stesso tempo si riallacciano idealmente anche al suo inizio, alle sue premesse. Sono in ideale colloquio con la Foresta di Paolo Picozza e con le Nature di Andrea Fogli, con quei fiori germogliati nella mente di Pasquale Altieri, con il giardino sintetico di Flavio Petricca, con gli uccelli stilizzati di Maria Pia Picozza, con le Pescolle di Bruno Ceccobelli, con la scrittura nell'acqua di Gregorio Botta e via via, in qualche modo con ciascuna opera esposta.
Rivedendole, ora, tutte, una ad una, mi sembra quasi di indovinare in ciascuna una diversa consapevolezza della natura, un'emozione non idealistica, non naturalistica ma sentimentale, da cui ci siamo lasciati guidare per questo nostro percorso.

Primo maggio 2014
Con grande ritardo oggi finisco di scrivere ma non ho ancora un titolo. Distrattamente leggo, correggo, rileggo. Intanto ho messo in fila le immagini come se fossero figurine per tracciare un ideale allestimento, dislocandole nei due piani del grande Palazzo che il Vescovo ci ha gentilmente messo a disposizione. Mi accorgo che inconsapevolmente le ho organizzate per gruppi, suddividendole a seconda del colore, dal più chiaro al più scuro, sono quasi un percorso tonale, in un crescendo di ombra man mano che ci si addentra nelle profondità del palazzo dei Papi e, guardandole, finalmente capisco. Il titolo sarà “dal bianco come il ghiaccio al nero come la pece”. Dal chiaro allo scuro e viceversa, perché è un percorso che si può fare anche a ritroso.