Arrivando a Adelma il viaggiatore si accorge di una cosa: tutti gli abitanti che incontra gli ricordano i morti che ha conosciuto in vita: perché giunge un momento in cui, fra la gente che abbiamo incontrato, il numero dei morti supera ormai quello dei vivi. Così la mente smette di esplorare, mettendosi a riconoscere, si fa memoria. Il principio della fine.
Si dice che tanto tempo fa gli abitanti di Eusapia abbiano costruito sottoterra una copia gemella della loro città, per andarvi ad abitare dopo morti: così somiglianti che nessuno ormai ricorda più quale delle due sia la città dei vivi. Non c'è più modo di distinguere i due mondi. Tanto che qualcuno si è convinto che siano stati proprio i morti a costruire l'Eusapia di sopra e non viceversa.
Da qua sopra, di Argia – città piena di terra invece che d'aria – non si vede nulla. Nel buio i suoi abitanti, i corpi sfasciati dall'umidità e privi di forze, preferiscono stare fermi e distesi. Così c'è chi dice: «Argia? È là sotto» e non resta che crederci.
Argia Eusapia Adelma. Ma anche le tre Laudomie: dei vivi, dei morti e dei non nati. O Melania: la vita dei suoi abitanti è tanto breve da non accorgersi di come in piazza, insieme con i dialoganti, tramuti incessantemente anche il dialogo...
Cinque capitoli fra i più perturbanti delle Città invisibili di Calvino. Essi c'interrogano sul legame – sostanzialmente fatuo e illusorio: consolatorio – che intratteniamo col regno dei morti.
A incrementare una tal sequenza credo debba legittimamente aspirare la Vetralla fotografata da Dante Paolocci tra il finire del XIX secolo e l'alba del XX. Una città morta per far posto alla nostra, presente e viva. Fantasmi, larve dell'esser stati, che puntano fissi i loro occhi nei nostri, scrutando un futuro di assenza. Perché: chi altri interrogano – gli sguardi incuriositi all'obiettivo – quei bimbi fuori-fuoco nella grotta del vasaro (lui distratto, a capo chino, religiosamente intento al suo mestiere)? E il gruppo di famiglia che siede a una panchina nel giardino di Casa Paolocci? Tra poco si alzeranno e usciranno di scena per far posto a me, che su quella panchina ci fumo il mio mezzo toscano ogni volta che vengo a trovare Davide, il mio santo editore (in questa sua fantastica sede, impreziosita da affreschi di mano – credo – dello stesso Paolocci).
E poi ci sono i luoghi. Perché anche un luogo può morire: la rocca-monastero con i suoi torrioni, la chiesa delle Murelle, il fontanile comunale. Non ci sono più. Così come mestieri, botteghe, utensili, animali da soma. Il cimitero con le tombe a terra e le donne inginocchiate a pregare.
Sono foto da lapide, questi scatti di Dante Paolocci. E Paolocci stesso un traghettatore di anime verso l'oltremondo.
Paolocci fu artigiano di tutto rispetto nell'ambiente artistico e letterario della Roma post unitaria: disegnatore e fotografo per le prestigiose colonne de L'Illustrazione Italiana. Schizzò sul suo taccuino un pranzo in onore di Garibaldi nel bosco dei Cappuccini a Viterbo. Macchina fissa al cavalletto, immortalò su lastra di vetro Eleonora Duse in campagna, a cavallo di un asino, a teatro, la prima della Nave di D'Annunzio. Una volta afferrò la sua Kodak 2, saltando al decollo su di un pallone militare per fissare su pellicola la sequenza – memorabile – di quei soldatini rimasti giù a terra a tirar funi, sempre più piccoli, sempre più piccoli. Con gustosa mise en abîme qualcuno volle sorprenderlo un giorno armeggiante intorno al cavalletto per una “istantanea” della Fanciulla d'Anzio. Ma questo dio psicopompo finì per impigliarsi anche da sé nel labirinto della sua opera. Nel cimitero della Vetralla che non c'è più il lettore potrà scovare infatti anche un paio di suoi “ovali”. Particolarmente in quegli scatti in cui le ceramiche sono messe al sole ad essiccare. Vi si affaccia l'ombra di un dio in bombetta. Chino alla macchinetta dei suoi inganni.
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