«Castrum Palazoli» la città fantasma che piacerebbe a Borges e Calvino
«Non capisco perché nessuno abbia portato via le pietre. Per me è un mistero» – esclama Giuseppe con l’umiltà stupita e l’ingenuo candore del passionista autodidatta di archeologia e storia locale. E subito ribadisce: – «Per millenni, quando si dovevano tirar su nuove città, la cosa più semplice era quella di venire a saccheggiare le pietre (già belle e pronte) presso insediamenti distrutti e abbandonati come questo. Ma qui nessuno sembra aver toccato niente. Questo per me è un vero mistero».
Lo sguardo di Giuseppe è limpido, verace, genuino. Qui, fra le rovine della città-bosco di Palazzolo, deserte da secoli, ogni suo gesto, ogni suo racconto testimoniano entusiasmo e cura paziente di chi ama davvero il proprio campanile ed è orgoglioso quando le tradizioni ne vengano messe in valore e promosse. Giuseppe è un dipendente comunale di Vasanello: è stato incaricato di ripulire i sentieri in vista della passeggiata/racconto che si svolgerà sabato pomeriggio presso l’insediamento fantasma di Palazzolo. Oggi è lui la mia guida “indiana”, il mio genius loci per un breve sopralluogo utile a definire gli ultimi dettagli di regia. Sopralluogo breve ma incantato: soprattutto grazie alla pioggia dei giorni scorsi, che ha inumidito e profumato l’humus del pianoro boscoso e le pittoresche grotte che ne costellano le ripide pareti, gonfiando i fossi che mormorano dabbasso, in fondo alle solenni gole, e conferendo loro echi di cupità baritonale. Così che tutto sembra voler manifestare al massimo grado, viva e presente, la vocazione pedagogica di queste rovine, la loro pulsazione su metro e accenti di un tempo puro – un mitico tempo prima del tempo – conoscibile mediante intuizione estetica prima ancora che con lo sguardo di una intelligenza analitica.
Così, presso le tombe antropomorfe della necropoli dei Morticelli o sul pianoro, fra i cumuli di conci superstiti e tracce degli antichi alzati (ancora confitti e ben leggibili nel terreno come sulle pagine di un graffiato e dilavato manoscritto) risuonano, vasti e profondi, alcuni versi.
I malinconici endecasillabi foscoliani intonati da Cassandra, nel finale dei Sepolcri, ai piedi delle fumanti macerie di Troia. O gli esametri omerici consacrati a un profetico vaticinio, laddove il vate anticipa per noi lettori/ascoltatori il destino di distruzione e oblio riservato dagli dei (incazzatissimi) al ben fatto muro dell’accampamento acheo: muro tirato su sulle rive del mare a proteggere le navi degli assedianti da eventuali sortite degli assediati. Tirato su in fretta e furia, ma con arroganza: senza cioè consacrare ai numi i dovuti sacrifici. E per ciò destinato a resistere ai furiosi assalti troiani ma solo per venir sommerso, in un giorno non troppo lontano, dai flutti irati di Poseidone.
Ai piedi dello sperone tufaceo di Palazzolo invece, su cui troneggia solenne e romantico il residuo mozzicone della chiesa di San Giovanni, ci sembra di scorgere, buttata in un canto, in mezzo all’erba alta, la bicicletta di Thomas Ashby. Mentre dallo zaino dell’archeologo-viaggiatore, insieme col taccuino per schizzi e appunti, spunta fuori la macchina fotografica. Per fissare un’immagine che a poco più di cento anni da questo istante già non esisterà più. E poi. Chiese trasformate in castelli, torri divenute casali. E poi. Toponimi fantasiosi, improbabili quanto intriganti, intitolati a sante mai venute in esilio da Viterbo o a rocche “brune” solo perché malfamate (cioè infestate dai briganti). E poi Castrum Palazoli: tratto da un catasto rustico del secolo XV, il dettagliato disegno di un borgo fortificato che era già solo un fantasma trapassato. Da queste parti – ne sono certo – gongolerebbero quei cartografi borgesiani artefici di una mappa vasta quanto l’impero stesso (e perciò stesso inutile: e presto abbandonata-ridotta a rovina archeologica e frequentata da soli cani smagriti e laceri mendicanti): si tratta dei protagonisti del racconto brevissimo e bizzarro intitolato Del rigore della scienza, incentrato su un’idea della conoscenza umana come labirinto delle vane approssimazioni. Ma si metterebbe a far la ruota anche il Calvino autore delle città invisibili: particolarmente quello di una fra quelle della memoria chiamata Maurilia: città lodata oggi, da cittadini e visitatori, per la “forma” testimoniata nelle sue vecchie cartoline; incensata per com’era bella un tempo, ma solo (e proprio) perché quel tempo, oggi, non c’è più. Così che la Maurilia odierna e quella di ieri non sono affatto la stessa città ma due assolutamente diverse che rischiamo di confondere solo perché hanno avuto la ventura di sorgere su da uno stesso suolo.
Antonello Ricci