Singolare il destino di questo libro, che ha trovato il suo artefice in «un viterbese d’adozione ed etnografo» e l’estensore della sua Prefazione in un altro «viterbese d’adozione ed etnografo». Antonio Riccio – racconta il medesimo nel Diario di campo (p. 23) – è andato via da Viterbo a vent’anni; il sottoscritto vi è approdato definitivamente, anche se dopo una frequentazione ininterrotta che va avanti fin dalla nascita, a quasi quaranta. Ora, che un libro così denso, così ricco di letture e di interpretazioni della cultura locale, sia stato scritto da un non-viterbese, o meglio: da un viterbese-a-metà (diciamo così), è già un dato a sé che meriterebbe attenta riflessione.
Ma ci voleva proprio un non-viterbese, o un viterbese-a-metà, per scrivere sulla festa che – in modo tutto sommato condiviso, e seppur con alterni entusiasmi – viene ritenuta essere la più importante del ciclo calendariale e sociale della città (l’Autore, sulla scorta delle interpretazioni locali, la considera una vera e propria festa civica)? Ci voleva un non-viterbese, o un viterbese-a-metà, per realizzare una etnografia della festa più visibile, di quella il cui sentore si avverte già nell’aria a principio dell’estate e il cui progressivo approssimarsi ha come portato quella costante tendenza a rimandare, a far slittare – un po’ scherzosamente, un po’ no – “doppo Santarosa” qualsiasi attività non sia stato possibile concludere entro la metà luglio? Era proprio necessario che fosse un estraneo rispetto alle logiche locali a tentare di decostruire e interpretare una festa così fortemente connotata sul piano simbolico (col suo ricco apparato iconico di emblemi e di immagini)? A cimentarsi nell’impresa di render conto di quell’evento capace di coinvolgere autorità civili, religiose, militari addirittura, oltre a quello straordinario stakeholder che è rappresentato dal Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa? A restituire una descrizione densa della manifestazione alla quale viene delegato il compito (anche per via del riconoscimento UNESCO, su cui poi tornerò) di far conoscere Viterbo nel mondo?
Se si volesse liquidare la questione facendo appello al senso comune si potrebbe sedare l’inquietudine generata – almeno nei più gelosi custodi del campanile (sostantivo inteso in questo caso nella sua accezione di metafora del sentimento di identità e di appartenenza, ma “campanile” è anche uno dei modi figurali di nominare la Macchina1) – dall’interrogativo circa l’autorevolezza di un libro su Santa Rosa scritto da un non-viterbese, o da un viterbese-a-metà, dando per buono l’adagio secondo il quale nemo propheta in patria. Preferendo invece spostare la riflessione su di un piano più analitico, pur rimanendo ad un livello aforistico, mi limito a far presente che Pietro Clemente quando viene sollecitato ad esprimersi circa l’estraneità dei ricercatori rispetto ai contesti da questi eletti a terreno di studio (e al sospetto che qualche localista, inevitabilmente, nei loro confronti nutre) suòle ripetere che chi è del posto sa di più ma vede di meno, mentre chi viene da fuori sa di meno ma vede di più. Chi è dentro è dentro, appunto. Sa, conosce, condivide modi di fare (talmente inscritti nella pratica da risultare incorporati), modi di sentire che finisce col percepire come talmente tanto usuali, consolidati e dati da apparire “naturali”, scontati, tali da non emergere dallo sfondo del paesaggio culturale e dunque difficilmente oggettivabili, definibili. Chi è di fuori spesso coglie habitus altrimenti invisibili a causa di un eccesso di familiarità. Ed ecco il vantaggio dell’etnografo, e in particolare la fortuna dell’autore di Evviva Santarosa la condizione personale, oltreché professionale, di straniero-interno consente ad Antonio Riccio di assumere comodamente quella postura, quello sguardo straniato gli permette costantemente di guardare le cose dal di-dentro e dal di-fuori, da vicino e da lontano, di porre il frammento in relazione al contesto e di illuminare il primo alla luce del secondo.
L’obbligo morale assunto in origine dal sottoscritto nei riguardi di Antonio Riccio, ragione di questo impegno di scrittura mosso da un sentimento di amicizia, di reciproca stima nonché di puro interesse per l’argomento trattato (e per la prospettiva tramite la quale l’Autore ha scelto di affrontarlo), prevedeva la realizzazione di un “pezzo” introduttivo, e di taglio marcatamente metodologico, alla seconda parte del libro, quella a carattere più eminentemente interpretativo. Tradendo in parte l’impegno assunto, e a ben vedere andando un po’ oltre la richiesta iniziale, ho finito col cedere alla tentazione di scrivere sulla prima parte. E mi sono sentito autorizzato a farlo perché la prima parte è imbricata nella seconda, è incastonata in essa, ne costituisce l’intima sostanza, ciò che la rende possibile. È la prima quella che dà l’impronta etnografica all’intero testo, almeno nella misura in cui si convenga sulla legittimità del parlare dell’etnografia come modo di dire ricerca sul campo, produzione di testimonianze e documenti.
La sezione Evviva Santarosa – segnalo ed elogio lo sforzo generoso compiuto dall’editore Davide Ghaleb nel mantenere integra questa porzione di testo – assolve all’obbligo etico della restituzione. Collocare la trascrizione delle interviste al principio della monografia ha un valore che va ben oltre le esigenze di carattere editoriale e comunicativo. La restituzione di buona parte del ricco corpus di interviste prodotte dall’autore nella fase preliminare alla realizzazione di Evviva Santarosa, quando ancora (forse) questa opera non era neanche un pensiero, rappresenta uno dei punti di forza di questo libro. E non solo perché offre una solidissima base al minuzioso lavoro interpretativo. Se fosse così rimarremmo sul piano delle ragioni della scienza. Il fatto è che chi narra una storia (un facchino, per esempio, come è il caso di Nello Celestini, che racconta il mondo visto da “sotto la màchina”) consegna al proprio interlocutore un pezzo della propria vita, gliela dona. Ma il dono genera un debito e soltanto tramite il contro dono, tramite la restituzione (tanto più significativa quanto – almeno in linea di principio – non obbligatoria) torna – almeno momentaneamente – la situazione di equilibrio originaria. Il contro-dono, la pubblicazione dell’intervista, è una forma simbolica di restituzione di grande importanza, porta inscritto in sé il valore del riconoscimento dell’altro e della sua storia, della sua vita.
Con l’avvio della sezione Etnografia di un patrimonio dell’umanità il lavoro assume una piega puramente interpretativa tesa a decostruire i discorsi, a far emergere ad evidenza le strategie retoriche, le poetiche e le politiche soggiacenti ai racconti e ai discorsi sulla Macchina (e in particolare sulla Macchina intesa come patrimonio culturale certificato e riconosciuto da organismi percepiti come dotati di autorità per farlo, oltreché di grande prestigio). La seconda parte del libro, debitrice in buona misura della prospettiva inaugurata da Clifford Geertz, ha il grande merito di riscattare questo oggetto dal puro (e in definitiva sterile) approccio folkloristico, tutto incentrato sull’annosissimo dibattito sulle origini (meglio se ricondotte a un sostrato pagano e a riti di fertilità), sulle somiglianze e sulle differenze, per trasformare il trasporto della Macchina, e tutto quello che prima, durante e dopo orbita attorno ad essa, in un “fatto sociale totale”. Cioè in qualcosa che – nel caso specifico – esula dal solo aspetto religioso e devozionale per riverberarsi (ed essere riverberato) in altre sfere della vita locale: sul piano istituzionale e del potere (si vedano le note dell’Autore su chi sia il detentore dell’autorità al cospetto della Macchina) e sulle rappresentazioni. Fatto sociale totale ma anche “fatto antropologico totale”: Santa Rosa (Macchina e festa) agglutina attorno a sé un campionario ricchissimo di tòpoi antropologici: i saperi, le tecniche del corpo, le costruzioni identitarie, le estetiche, il senso di appartenenza, i sistemi di relazione, le strategie di patrimonializzazione2. Già, perché dal 2013 la Macchina di Santa Rosa3 risulta inscritta nella Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity dell’UNESCO4. Intangible Cultural Heritage, che tradotto nel lessico convenzionale italiano delle discipline demoetnoantropologiche diventa Patrimonio Culturale Immateriale. Non può sfuggire l’apparente ossimoro che vede la Macchina, la cui materialità, la cui concretezza – nei sui 50 quintali di peso e nei suoi circa 30 metri di altezza – appare indubitabile, essere inscritta nella lista rappresentativa del patrimonio “orale” e “immateriale” dell’umanità. Ma l’ossimoro appena sopra evocato è frutto di un fraintendimento, il quale affonda le sue radici nel linguaggio, e in particolare nel fatto che nelle narrazioni native ad essere definito con la generica (quanto approssimativa) formula “Patrimonio dell’umanità” appare essere, in modo piuttosto evidente, l’oggetto Macchina di Santa Rosa sic et simpliciter. Degli esempi, per intenderci. Sul portale web www.macchiansantarosa.it il titolo che campeggia all’interno dell’header è il seguente: «La Macchina di Santa Rosa è Patrimonio immateriale dell’Umanità». Anche i mezzi di informazione sembrano adoperare (adagiarsi sopra) una simile strategia comunicativa: «La “Macchina di Santa Rosa” è stata riconosciuta dall’UNESCO patrimonio immateriale dell’umanità» recita l’attacco di un articolo pubblicato sulla cronaca romana del quotidiano laRepubblica.it, che poi prosegue – poche righe più avanti – così: «Le grandi macchine a spalla, dunque, sono patrimonio dell’umanità»5. “Le grandi macchine a spalla”, appunto. Soltanto avanzando nella lettura del pezzo si coglie un esplicito riferimento al trasporto della Macchina quale reale oggetto del riconoscimento UNESCO. Il documento pubblicato sul sito web dell’UNESCO Nomination file no. 00721 for inscription in 2013 on the Representative List of the intangible Cultural Heritage of Humanity, alla voce Name of the element in the language and script of the community concerned, if applicable, individua, al di là di ogni ragionevole dubbio, la materia della patrimonializzazione nelle «Feste delle grandi macchine a spalla» e nel riquadro sottostante il riferimento è esplicito al «Trasporto della Macchina di Santa Rosa». Pertanto, ciò che è posto al centro delle politiche unescane non è la Macchina-in-quanto-bene-materiale, bensì il fatto sociale, effimero, del suo trasporto. Il patrimonio riconosciuto dall’UNESCO non risiede nell’insieme dei tralicci, bulloni e apparati scenografici che tengono in piedi Fiore del cielo, oppure Ali di luce oppure Gloria. Non è patrimonio questa o quella macchina, bensì il repertorio, l’insieme fatto di saperi, saper fare, pratiche, rappresentazioni che ruotano attorno alla Macchina e il suo trasporto, ne consentono la riproducibilità6, la trasformano in dispositivo rituale e festivo (in una parola: culturale) capace digenerare immaginari, narrazioni, autorappresentazioni, senso della tradizione, località, senso di appartenenza. Ed ecco allora l’importanza delle testimonianze e delle storie, della ricerca, dell’ascoltare quante più voci possibili, e del metterle a disposizione del lettore (come è stato fatto in questo volume). Perché i saperi locali, quali quelli che prendono forma e sostanza attorno alla Macchina di Santa Rosa, sono distribuiti in modo non uniforme entro le comunità (“comunità patrimoniali”, nel caso specifico); sono saperi padroneggiati in modo non omogeneo, rispetto ai quali si hanno livelli differenti di competenza, saperi ai quali i soggetti accedono in funzione del proprio status, del genere, dell’età, del ruolo rivestito all’interno di quel determinato contesto. E soltanto una ricerca estensiva è capace di fornire un quadro articolato di quelle prassi, espressioni e conoscenze che costituiscono e sostanziano il patrimonio culturale immateriale attestato dall’UNESCO. Quello che viene fatto in questo libro.
Rispetto alla patrimonializzazione, cioè: all’insieme delle pratiche e delle politiche che hanno come finalità la messa in valore di determinati beni, la loro promozione a patrimonio culturale certificato (nel caso in esame), l’approccio di Antonio Riccio sembra collocarsi abbastanza solidamente entro il solco segnato da quell’“attitudine partecipativa” alla definizione del patrimonio di cui parla Berardino Palumbo. Il primo incontro dell’Autore col tema affrontato nel libro rimanda alla partecipazione del medesimo alla campagna di documentazione finalizzata a sostanziare l’iter di candidatura della Macchina a patrimonio immateriale dell’umanità (e dunque alla produzione di interviste, immagini, tutti materiali poi confluiti nelle schede BDI7 consegnate agli organismi ministeriali e poi all’UNESCO). «Gli studiosi che assumono un’attitudine “partecipativa” rispetto al campo patrimoniale […] sono di solito – scrive Palumbo – consapevoli […] del carattere “politico” della propria partecipazione. La scelta partecipativa comporta la necessità di operare con e attraverso le “cose” del campo patrimoniale» nonché l’«obbligo di oggettivare i processi di produzione/costruzione di tali “beni”, il proprio coinvolgimento in tali processi e, infine, i più ampi scenari all’interno dei quali operano la logica patrimoniale e i suoi attori». Postura partecipativa, dunque. Ma lo stesso Palumbo mette in guardia da troppo rigide ripartizioni di prospettiva nel caso degli antropologi che si occupano di patrimonio: «È evidente, infatti, che la partecipazione si differenzia da un’adesione abitudinaria allo scenario patrimoniale per il diverso grado di consapevolezza critica e per la capacità di resistenza etnografica con cui lo studioso opera nel campo. Nello stesso tempo, ogni postura seriamente critica deve essere in grado di riflettere sul proprio coinvolgimento, istituzionale e discorsivo, nella scena patrimoniale, coinvolgimento che, dunque, deve poter oggettivare e sottoporre, se possibile, ad un’attenta analisi etnografica. Inoltre, se quella della critica sociale è essa stessa una pratica, in quanto pratica critica non può non avere precisi effetti all’interno dei processi che indaga: effetti che occorre, a loro volta, analizzare nei loro concreti, specifici, contesti chiamati in causa. Critica, dunque, del discorso patrimoniale e capacità partecipativa ai suoi contesti d’azione non si elidono, ma, entrambe legate alla necessità di un posizionamento etnografico, possono agire come strumenti integrati di un’esperienza antropologica della contemporaneità»8. La lunga citazione mi sembra ben delineare la cornice entro la quale Antonio Riccio si è mosso e puntualmente definire il suo posizionamento scientifico rispetto al proprio oggetto di studio.
Questo volume inaugura una collana editoriale che Davide Ghaleb ha voluto dedicare alla pubblicazione di ricerche e di esperienze frutto della prospettiva demoetnoantropologica che hanno come contesto culturale privilegiato di riferimento quello della provincia di Viterbo, progetto che rappresenta l’ennesima prova dell’impegno concreto a favore della conoscenza e della valorizzazione del patrimonio culturale locale di cui la casa editrice Ghaleb ha dato più volte tangibile prova nel corso degli anni.