È l’eros che salva le cose
di Antonello Ricci
Se i mossi quadri della sua vita finissero un giorno immortalati dal pennello di un pittore di murales latino-americani, il titolo sarebbe certo La Pasionaria. Perché il demone più alto di Teresa Blasi è stato senz’altro (ed è ancora oggi: ancora oggi) la politica. Lo so, non si chiede l’età a una Signora. Ma, lasciatemelo dire, non c’è battaglia negli ultimi sessant’anni di questa nostra bella e amara terra, che non abbia visto Teresa in prima fila, “suffragetta” infaticabile, schierata sempre dalla parte giusta: per la crescita culturale del territorio, nelle più importanti questioni civiche o in quelle di più vasto respiro ideale e civile. Non sarà un caso se i compagni che lottarono fianco a fianco con lei, i suoi con-sorti a vario titolo, si affacciano tutti dalle pagine di questo agile volume: Felice Carlo Achille. Chi pudicamente rievocato per solo appello nominale; chi umoristicamente ritratto in azione nel corso di divertenti e brancaleonesche campagne elettorali (quelle di una volta); chi rievocato per gli infiniti frammenti di una quotidiana condivisione di affinità elettive.
Eppure, al di là delle apparenze e delle intenzioni, questo che il lettore stringe in mano non è un libro di politica. Tutt’altro. Perché si sa: invecchiando impazzendo. E a un certo punto della sua intensa vita (tutta comunque spesa in letture intense e raffinate), più forte della pulsione ideologica e testimoniale, Teresa ha sentito l’urgenza dello scrivere. Di un certo scrivere. Scrivere per salvare: inseguendo una purezza di forme che possa redimere le cose dall’oblio del trascorso e consegnarle a futuri sensi. Proustianamente: scrivere in cerca di un Tempo Ritrovato. Primi vennero un paio di volumi in versi, asciutti e composti quanto eleganti e sentenziosi. Poi, ineludibile, la prosa del ricordo. Credetemi, non c’è viatico migliore a quest’operina di racconti e bozzetti (sì, lo so lo so, c’è anche –e non a caso– qualche “strisciata” in versi), non c’è viatico migliore –dicevo– del frammento di Maria Corti piazzato da Teresa a esergo di tutto: i ricordi sono come uova nel nido, scaldati dalla memoria a un certo punto esplodono. Invocano la pagina.
Non ho evocato invano l’autore della Recherche: è l’autrice stessa a convocarlo in scena, con malizia, quando nelle ultime pagine lo annota «amatissimo» negli anni della gioventù dall’amico di sempre, Felice Norcia. Lo si sarà capito: per il sottoscritto la regione più bella e più intensa di queste pagine è proprio quella profilata dalle prime due sezioni. Una consacrata alla favola dell’infanzia –guarda caso– l’altra a un’adolescenza consumata (farfarello sensuale e innocente, tenero e spietato) ai tempi della guerra. Ma la prima sezione, soprattutto. Laddove i capitoli sono scanditi da oggetti-ricordi che agiscono al pari delle madeleines proustiane, veri e propri inneschi per certe intermittenze del cuore: gli stivaletti di gomma del primo giorno di scuola, il pennino gocciolante d’inchiostro, il busto dello zio monsignore bianco come un fantasma, la camicia abbandonata dal serpente come reliquia di «strana bellezza» nell’orto. Infanzia uguale incantagione sospesa, sguardo assoluto sulle cose della vita: le prime esperienze attorno alla casa e per le strade del paese, le prime letture, le prime recite nell’edificio delle Elementari. Quando, per virtù magica, il Libro Cuore fa piangere la piccola Tina. Mentre il teatro appare vero come una tragedia antica. Infanzia come travaso osmotico senza sosta. Si prova angoscia, si ride, si ripetono all’infinito le battute udite, perché l’arte è come la vita, è la vita stessa: ineluttabilmente vera, essa accade per sempre.
Poi c’è un profumo. Un profumo che torna dall’album dei ricordi (ché questo di Teresa è anche – e soprattutto – un libro di ritorni): Teresa che di nuovo incontra e finalmente riconosce –siamo a Ischia, infiniti anni dopo– il profumo «dolce e aspro e nuovo» di quei lunghi baccelli che ogni mattina, andando a scuola per via Roma, la stregavano al banco del magazzino della frutta. Siamo a Ischia, in un giorno di sole e di sensi, di corpi nudi che si abbandonano all’amore. S’intitola Eros questa pagina che narra la ricomparsa di un profumo senza nome dal tempo senza tempo dell’infanzia (il frutto, presto detto, è la carruba). Profumo che torna e ritrova il suo posto. Eros del ricordo. Eros della scrittura. È dunque l’eros che salva le cose. Grazie, Teresa.