La cultura egizia ed i suoi rapporti con i popoli del Mediterraneo durante il I Millennio a.C.
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Viterbo fu governata da Osiride in persona per un decennio, dopo che i giganti che opprimevano l'Italia furon da lui sconfitti e la civiltà saldamente stabilita. È quanto almeno oltre cinque secoli fa il domenicano Nanni da Viterbo apprese in una biblioteca di Mantova, non più esistente, dove si conservavano classici greci e latini. Allo stesso Annio (o Nanni) si deve l'elaborazione del ciclo delle storie di Iside e l'attribuzione ai Farnese di una discendenza da Osiride.
Anche i poemi omerici hanno dominato con la loro suggestione quello che è stato prefigurato come il panorama storico dell'alba della nostra civiltà. L'epico scontro di popoli presso una città che è possibile ancora identificare, le peregrinazioni avventurose in uno scenario geografico popolato da mostri e da altre meraviglie: il rinvenimento di resti archeologici e la ricerca di indizi e di interpretazioni hanno confortato l'opinione della storicità delle informazioni desunte dall'epos ed incoraggiato ad approfondire la conoscenza di civiltà scomparse attraverso le reminiscenze della poesia omerica.
Tuttavia il grado di conoscenza raggiunto attraverso le scoperte archeologiche e la ricostruzione mo-derna del mondo più antico, perseguita mediante continue rettifiche ed integrazioni, se da un lato non ha intaccato il valore poetico dell'aedo, ne ha sempre più messo in evidenza l'ignoranza: informazioni dirette certo, ma quanto spesso distorte ed incomprese, secondo una visuale assai ristretta e marginale, quasi a consentire con Eraclito “Omero è degno d'esser scacciato dalle pubbliche recitazioni e fustigato”. L'epica omerica è, nella sua altissima vena poetica, esemplare per la chiarezza delle situazioni e la completezza dell'informazione. Però se il Medi-terraneo omerico può parere evoluto rispetto alla visione ottusa di un contadino, quanto la competenza dimostrata dal cantore è insufficiente in confronto a quanto già da molti secoli sapevano le corti e tutti i centri di potere.
Già dal XV sec. a.C. la corte egizia intratteneva rapporti con i palazzi di Creta e Micene ed altri luoghi ancora vagamente noti; oggi non vi sono più forti resistenze a dilatare l'orizzonte geopolitico del mondo faraonico, da quando la citazione di un principato anatolico è stata riscontrata nella Storia di Sinuhe (principio del secondo millennio a.C.) o un vaso che riporta il nome di un sovrano hyksos è stato scavato sulla costa mediterranea della Spagna. Sempre meno si crede al caso o ad eventi fortuiti, mentre si sospetta la moderna carenza di cognizioni adeguate per dissipare dubbi e indicare soluzioni valide.
A questo punto però il processo si capovolge: non si adopera più Omero per conoscere le antiche civiltà, ma si ricorre ai nuovi dati disponibili per capire Omero. O meglio gli elementi provveduti dall'epica sono integrati nel sistema di strutture storiche che costituisce il nuovo scenario per la ricostruzione dell'origine della civiltà mediterranea.
L'ampiezza delle conoscenze ha però generato un nuovo ordine di questioni. Lo studio dei singoli territori conferma la continuità dello sviluppo umano; al contempo risalta con evidenza la somiglianza tra regioni diverse nelle stesse fasce temporali, indipendentemente dagli elementi di disunione o di contrasto. E ciò vale soprattutto nel rapporto tra le documentazioni del primo millennio a.C. e quelle della precedente età del bronzo, laddove le conoscenze dei periodi a noi più vicini sono in genere più abbondanti e precise, anche in ragione di una maggiore definizione delle identità storiche. Succede così che la civiltà cretese-micenea sia legata alla grecità classica, anziché al mondo anatolico od egiziano, che nel periodo coevo presentano con essa indubbie maggiori affinità semiotiche.
Una verifica sta anche nel modo in cui gli egiziani del primo millennio a.C. conoscevano la loro storia anteriore. Manetone è dichiaratamente proclamato lo storico dell'Egitto faraonico, anche se il suo contributo si limita ad un paradigma di regni ed a leggende di varia antichità che fiorivano su singoli faraoni. E' stata notata la differenza rispetto alla descrizione, documentata e critica, di Erodoto, il Padre della Storia.
Ora nulla ci assicura che tra i possibili candidati quello scelto da Tolomeo II per redigere in greco una storia dell'Egitto fosse il più adatto allo scopo. Al contempo è evidente la labilità delle notizie che si possedevano sui periodi anteriori al primo millennio e, non ostante la capacità di consultare ancora le fonti antiche, la loro sostanziale ignoranza. Eppure il primo millennio a.C. fu un periodo di studio, di riscoperta, di conservazione dell'antico patrimonio di civiltà, ma non tale da sostituirsi o da potere integrare i risultati della moderna indagine archeologica. Certamente rimaneva accessibile un maggior numero di monumenti che non oggi, ma quelli sepolti erano egualmente preclusi, e l'insieme delle disponibilità risultava del tutto inadeguato ad una reale ricostruzione storica.
Gli studi recenti hanno anzi mostrato che si tentava di calcare l'attualità della monarchia sul prototipo artefatto che si era desunto dall'indagine dei monumenti del passato, annullando in tal modo ogni divario tra il presente e il passato, con un'operazione antitetica a quella condotta durante il Nuovo Regno, in cui il presente si era separato per la prima volta da una situazione priva di contrapposizioni temporali. Si era in qualche modo coltivata l'illusione di ritornare ad un immaginario tempo mitico delle origini.
Appunto la monarchia ellenistica aveva nuovamente ricreato un con-trappunto tra tempi nuovi e la civiltà faraonica, ma questa era stata concepita come un insieme unitario da contrapporre all'ellenismo.
Un fenomeno simile si ripete nel presente, dove una storiografia sviluppata nei singoli Paesi è poco sensibile nei confronti di punti di vista alternativi espressi da culture diverse. Nel campo dell'antichità sta emergendo, in modo inatteso e perentorio, una testimonianza di civiltà ignorate e persino negate, che già modifica le conoscenze sostenute dalla visione tradizionale. E' quanto concerne il mondo africano e più precisamente meroitico, la cui decifrazione si accompagna inevitabilmente all'ac-cettazione di un mondo parallelo ed estraneo a quello romano. Esso è già in grado di dialogare, ma secondo parametri che rifiutano la visione unilaterale prodotta dagli studi centrati sulla documentazione greca e latina.
Ci si potrebbe meravigliare perché la lunga consuetudine a viaggi anche molto lontano fin da tempi remoti non abbia prodotto una narrativa dell'e-sotico, se si prescinde dal Racconto del Naufrago o dalle Avventure di Sinuhe. In realtà queste peripezie sono attestate da racconti autobiografici circostanziati, come quelli nella tomba di Harkhuf ad Aswan, da graffiti situati in posti distanti come il Gilf Kebir o Khashm el-Bab, da manufatti che traversarono il Medi-terraneo almeno dal Terzo Millennio a.C.. Ma le conoscenze geografiche sono raccolte in pedanti liste di pro-scrizione o di sottomissione, e non sono elaborate in un'opera di fantasia o di poesia. Dobbiamo dedurne che il trattamento letterario delle conoscenze è datato e non appartiene all'e-sperienza umana più antica, quando la parola serve a scopi precisi e non a dilettare. La stessa osservazione si applica ai miti, che danno origine a narrazioni complesse soltanto duran-te il Secondo Millennio a.C.. In origine la visione degli egizi, fredda e pragmatica, non era fatta per sognare o per generare curiosità. Soltanto con la cultura neoegiziana, nell'età ramesside, l'interesse egizio si apre all'eso-tismo. Tuttavia le opere che si compongono sono fatte per servire nell'immediato con uno scopo diretto e non per consacrare l'identità di una cultura. Non vi è tradizione letteraria, che ad esempio si possa paragonare a quella dei poemi omerici. Soltanto gli scritti dedicati nei templi o nelle necropoli restano oggetto apparentemente di una lettura perpetua. Ma ampiezza di notizie non significa necessariamente sicurezza di interpretazione.
Strano risulta il mistero della terra di Punt, su cui abbondano le notizie e anche le informazioni contraddittorie, stando alle nostre basi di conoscenza. Sicché, fino a quando non si troverà una testimonianza ineccepibile della collocazione di questo paese la nebbia del dubbio aleggerà su qualsiasi identificazione proposta.
Certamente le nostre conoscenze sono parziali e spesso preconcette. Ci si è appena accordati per sostenere che Keftu è Creta, che si trova un palazzo decorato come quello di Cnosso nel delta orientale del Nilo, nel sito della Avaris degli Hyksos. In questo modo l'identità di una cultura è compromessa nella sua definizione geografica senza che sappiamo renderne conto. Eppure nell'insediamento egeo di Akrotiri sull'isola di Thera un dipinto raffigura con ogni probabilità il corso del Nilo, restituendo una base di reciprocità.
A questo punto è inevitabile riconoscere la frammentarietà della visione nostra, come di quella di ogni periodo rispetto ad altri, e di ogni cultura rispetto al mondo ad essa esterno – come la relatività di ogni orizzonte culturale.
Tra i temi di questo incontro, due vengono opportunamente ad integrare questo assunto. La visione “dell'al-tro” rientra pienamente nella necessità di raggiungere una conoscenza obiettiva, consapevole della presenza di molteplici punti di vista, per offrire una definizione che li comprenda tutti e dunque divenga effettivamente un dato storico. Lo studio degli scarabei, e soprattutto della loro diffusione, guida lungo percorsi che costituiscono sicuramente tracce di vie di diffusione e di contatto. Una delle mie curiosità consiste precisamente nel verificare la possibile corrispondenza tra la documentazione di oggetti apparentemente insignificanti e l'affer-mazione di fatti di cultura essenziali quale la distribuzione degli alfabeti attraverso il Mediterraneo. Non so se l'equazione “scarabeo = alfabeto” possa esser valida, ma questa sola domanda è un altro segno della nostra fondamentale ignoranza nei confronti dei mondi che ci hanno preceduto.