Vetralla nella poesia, un patrimonio di armonie e di contrasti
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Presentazione di Enrico Guidoni


L'idea di costruire questa rassegna antologica è nata dalla constatazione che Vetralla è la pietra di paragone usata da Annibal Caro nella famosa polemica con il Castelvetro, ma che ciò è stato fino ad oggi ignorato e sembra non aver avuto, in apparenza, influenza sulla tradizione poetico-letteraria locale.
In realtà, come cercheremo di mostrare, è proprio questo clamoroso incipit che consente di abbozzare non una semplice raccolta caratterizzata dall'eterogeneità, ma una vera e propria "storia" attraverso 450 anni (1553-2003), della poesia che ha Vetralla come soggetto/oggetto: città e territorio, ambiente e monumenti, tradizioni e innovazioni, affetto e repulsione, retorica e intimismo, centro storico e frazioni, nobiltà e artigiani, lingua e dialetto sono solo alcune tra le dialettiche emergenti nei testi pubblicati. Il taglio di questa collana ha del resto imposto una limitazione che, se pur non è stata sempre rigidamente rispettata, ci ha consentito di concentrare l'attenzione sui caratteri fisici del paesaggio, e sulle attività umane in rapporto con la natura e con la storia. Sorprendentemente, un filo conduttore rigoroso (che ci ha portato a trattare non dei poeti vetrallesi, ma delle poesie dedicate a Vetralla) si è dimostrato efficace nello scandagliare una continuità di temi e di contenuti che, indipendentemente dal valore (sempre opinabile) delle singole opere, restituisce alla città una parte nascosta delle sua identità storica e della sua immagine; del resto la poesia, come l'arte, è ricerca della verità. Ancora una volta si dimostra come le basi culturali della nostra comunità abbiano radici profonde e non sempre evidenti, che ogni epoca si sforza di riscoprire e reinventare, all'interno di una sempre attuale dialettica tra sentire comune e privata polemica.
L'occasione che ha spinto Annibal Caro a scrivere i Mattaccini e poi i Sonetti Burleschi è la famosa polemica con Lodovico Castelvetro (Modena 1505 - Chiavenna 1571) che nel 1553 critica aspramente la canzone Venite all'ombra de' gran gigli d'oro, scritta dal Caro in lode del re di Francia. Motivazioni politiche - principale la contesa tra filofrancesi e filoimperiali, che doveva penalizzare anche i Farnese e inasprire la contrapposizione dei due schieramenti - si mescolano ad ambizioni personali e a contrasti religiosi, acuiti poi pesantemente dall'azione, filofrancese e antiluterana, del pontefice Paolo IV Carafa. Da una parte il Caro, giustamente sospettato di opportunismo, parteggiava apertamente per l'ortodossia e per l'azione del papato, accusando il Castelvetro di eresia; dall'altra il Castelvetro, determinato ma meno dotato sul piano letterario, trovava naturalmente sostegno nell'Impero, soprattutto dopo la scomunica (1560), vagabondando tra Ginevra, Lione e Vienna mentre si dedicava agli studi di lingua e di grammatica.
Nel contesto di feroci polemiche, durate alcuni anni, tra i due personaggi, si inserisce, come fatto determinante, l'ambita concessione al Caro della Commenda dell'Ordine di Malta (1555), tanto prestigiosa quanto remunerativa, situata tra Viterbo e Montefiascone. Nella scelta di Vetralla come luogo emblematico dove trovano misero rifugio gli scalcinati partigiani del Castelvetro, sono stati sicuramente importanti sia la frequentazione della cittadina, sulla strada per Roma, sia la possibile rivalità con l'altra Commenda dell'Ordine di Malta in S. Maria di Foro Cassio. Ma nella definitiva determinazione di ambientare allegoricamente a Vetralla i suoi versi fortemente satirici e polemici ha giocato un ruolo decisivo l'assonanza del nome. Castelvetro come "Castello di Vetro" ben si accosta a Vetralla, con le sue mura in cattivo stato di conservazione, dove trovano rifugio rapaci notturni e una grande varietà di uccelli e dove probabilmente esisteva qualche personaggio ostile al Caro che poteva essere identificato come partigiano del Castelvetro e sospetto di eresia. Non va infatti dimenticato che, proprio nel 1555, viene ucciso Alberto Longo, seguace del Caro, che incolpa del delitto il rivale provocandone infine la condanna e l'esilio.
La lettura dei Mattaccini (per l'esegesi critica, si rinvia ad Annibal Caro. Opere. vol, II: Apologia; Commedie, Rime, Lettere, a cura di S. Jacomuzzi, Torino 1974) è ardua ma godibile per la sue asperità linguistiche, le allusioni non sempre trasparenti, la ferocia nei confronti di un nemico identificato con un gufo, la citazione di un gran numero di animali. Quanto alle difese di Vetralla, se ne citano "i torrioni", "i bastioni", "il Castello" (Castelvetro), "la rocca" con "i suoi vetri e quei mattoni / ch'un sopra l'altro, come i maccheroni / sono a crusca murati ed a ricotta": un accostamento perfetto tra la fragile macchina difensiva degli avversari e un complesso di mura mal costruite e in procinto di cadere. Si passa poi a descrivere "La gran torre di vetro" (simbolo di una sorta di Torre di Babele costruita dal Castelvetro, accusato anche di creare confusione nella lingua); la rovina del rivale è descritta come manufatti in vetro ("orinali" e "fiasconi") che vanno in frantumi, e come crollo delle difese di Vetralla: "Questo, ch'era Castello, ora è volpaia: / questi pezzi d'ampolla e d'alberelli, / eran torroni e cupole e verruche". Ma tra gli oggetti - in vetro o in ceramica (albarelli) - che si riducono in pezzi a seguito dell'offensiva del Caro e alla risibile difesa opposta dal Castelvetro e dai suoi, il Commendatore sceglie proprio l'ampolla di vetro (contenitore tradizionale per l'olio) che costituirà il filo conduttore dei successivi quattro Sonetti Burleschi e della Risposta del Caro a "un Castelvetrico".
Questi sonetti (non ripubblicati nelle Opere e per i quali abbiamo tenuto presente Rime del Commendatore Annibal Caro notabilmente accresciute, Verona 1728) alludono ad un alchimista ("lambicco") chiamato Cafageo e abitante a Vetralla, a sua volta sempre richiamata, nei versi finali, con la figura simbolica dell'ampolla. Evidentemente Annibal Caro, attento cultore dell'iconografia artistica e dei relativi simbolismi, si è accorto che la pianta di Vetralla, così come viene delimitata racchiusa entro il perimetro delle mura tardomedievali, ha la forma di un'ampolla, con il collo proteso verso S. Francesco e il recipiente nella più ampia parte che termina nella rocca. Questa ampolla di vetro -ampolla per l'olio, ma anche antichissimo vaso per le celebrazioni religiose -, fragile come sono fragili le mura cittadine, si rivela quindi, grazie all'attenzione per i dettagli ed al furioso impegno del Caro nella polemica della sua vita, come la "figura simbolica" di Vetralla, suggellata da una interpretazione di alto livello sia per acume che per aderenza alla realtà. Un utilissimo inizio per la nostra rassegna poetica che, indipendentemente dall'intrinseco valore dei versi del Caro (comunque storicamente e letterariamente importanti) è anche chiave interpretativa dell'intera raccolta.
L'ultimo sonetto del Caro che pubblichiamo (insieme a quello di un partigiano del Castelvetro al quale replica, e che allude alla polemica esplosa a Roma in Banchi e all'origine marchigiana del Commendatore), richiama Vetralla in rapporto con la Maremma e con il vasto territorio selvaggio "da Vetralla a Pisa", mentre cita altri luoghi ben conosciuti "da Caprarola a Stabbia" (oggi Faleria).
E anche la posizione geografica di Vetralla, cerniera tra la Maremma e il territorio romano, sarà ben presente nei secoli seguenti, fino alla citazione pasoliniana e alla esperienze di vita e di lavoro di tanti "poeti a braccio".
Prima di proseguire nella rassegna è opportuno ricordare il clima di pericolo e di "caccia alle streghe" vissuto a Vetralla nei primi anni della controriforma (A. Porretti, Un processo di stregoneria nel 1567 a Vetralla, "Biblioteca e Società", VI, 1984, pp 15-25) anche per un interessante esempio di poesia propiziatoria popolare (il così detto "occhiaticcio"), contro il malocchio:

La vacca per il prato
leccando il suo portato,
e io me lecco il mio
ogni mal ti toglia Dio.

In questo caso applicato alla malattia dei bambini; oppure

Occhiaticcio ogni mal ti toglie Christo
spiazzo infuso e maglie prova
San Martino lo comandava,
questo male vada via,
voglia Christo e la Vergine Maria.

Che la poesia vetrallese sia piuttosto di contenuti che di ricerca formale lo ribadisce Ippolito Furlani nella sua premessa in versi al Catasto del 1571, dove, dopo il rituale omaggio alle autorità e alle maggiori famiglie del tempo, l’ autore si propone come garante della riduzione delle tasse. Ma di questa gustosa e graziosa composizione vanno ricordate le lodi alla Terra, talmente pertinenti da potersi considerare valide anche nei secoli seguenti:

Di robba questa Terra eglie un mare
D’ogne comodità lei e dotata
Ognun cerca venirci ad abitare

E tra le provenienze degli immigrati l’autore cita quella regione “marchigiana” che, realmente, è stata per molto tempo legata a Vetralla da intense relazioni anche culturali.
Dal Serafini -il primo storico e studioso del territorio vetrallese- abbiamo tratto innanzi tutto l’interessantissima lode di Vetralla antica (Foro Cassio) dovuta a un "pellegrino amico e forestiero", Tommaso Saraceni, dove una storia romanzata si mescola a rivendicazioni di passate glorie ma anche alle prime arcadiche descrizioni del paesaggio.
Abbiamo anche inserito -unica parte in prosa del volume- alcune pagine particolarmente significative dove il Serafini (come vedremo stroncato come narratore di favole dallo Scriattoli) sviluppando la sua teoria certamente poetica e non scientifica sui fondatori di Vetralla, ne ritrova le tracce in ogni angolo e in ogni contrada del territorio. Prima di Cassio, Noè e soprattutto Giano sono citati in causa come eroi eponimi, capaci di perpetuare la propria presenza in modo così capillare da nobilitare con l’impronta delle fantasiose origini (attraverso assonanze prive di fondamento ma non per questo meno memorabili) anche la modestia dei luoghi teatro del duro lavoro quotidiano dei contadini (L. Serafini, Vetralla antica cognominata il Foro di Cassio, 1648; 2a ediz. a cura di A. Scriattoli. 1895).
Si passa poi direttamente ad Andrea Scriattoli, poeta ufficiale e molto conosciuto la cui raccolta, pubblicata nel 1900, ha durevolmente influenzato la cultura vetrallese. Ricchissime di riferimenti storici, di intenti rievocativi a volte enfatici, a volte ingenui e macabri, le poesie di Scriattoli sono testimonianza di un’epoca in cui si andavano scoprendo i paesaggi d’Italia e , insieme, le antiche glorie di ogni sia pur modesta città. La nostra scelta ha privilegiato, anche in questo caso, i versi riferiti al territorio, alla descrizione dei luoghi, degli ambienti e dei monumenti; versi che fissano tematismi ripetuti in seguito e che, a parte l’insidiosa componente retorica, sono interessanti per i contenuti moderni e laici, anche quando (come ne I Pignattari) si allude a improbabili origini etrusche. L’attenzione per le tradizioni locali e anche per una modernità imperfetta (La stazione ferroviaria) sono a loro volta temi che avranno una forte influenza; mentre in negativo va sottolineata La storia di Vetralla per l’ingenerosa liquidazione dell’opera del Serafini la cui reputazione di storico che scrive “fra un salmo ed un bicchiere” non si è più risollevata (A. Scriattoli, Loco Natio. Versi, Roma 1900).
Con Domenico Santinelli inizia la serie dei poeti di estrazione popolare, spesso poeti “a braccio” dialettali, più o meno esperti nel verseggiare ma, complessivamente, molto interessanti per i contenuti fortemente concreti e, come nel caso di questa lode sui Ciclisti caduti, inclini alla satira. Le rovinose cadute-per fortuna mai letali- segnano con la memoria le strade sterrate e piene di buche del territorio e le località dove, come nei romanzi cavallereschi, sono gli eventi epici a dare significato ai luoghi (Foglio volante I ciclisti caduti nel contado di Vetralla, 16a composizione di Domenico Santinelli, Vetralla tip. Berardi-Alessandroni).
Di Zefferino Tomassini pubblichiamo la lode della frazione di Tre Croci, che prende le mosse aulicamente dal poetare antico e dal tradizionale incipit dell’inno al Sole.
Di Vincenzo Pasquinelli (il Burano) famoso poeta a braccio di Tre Croci, la lode della vite è un omaggio alla coltura tradizionalmente più importante.
Ancora su Tre Croci, Giuseppe Brama coglie aspetti paesaggistici, devozionali e cronachistici interessanti (vedi soprattutto il ricordo dell’inaugurazione dell’acquedotto). Ma da ricordare soprattutto, nonostante il rifiuto programmato di un’antica tradizione in contrasto con i tempi e la mentalità moderni, Le trenta vecchie (cioè i trenta vecchi), usanza interessante sotto il profilo antropologico finalizzata a trovare marito a vedove e zitelle della comunità.
Con Americo Gambini la poesia si fa più ricercata, ricca di riferimenti antropologici e sempre profondamente legata alla nostalgia dei luoghi, segno comunque di una non consueta attenzione per gli aspetti formali (Profili di Protagonisti Vetrallesi. Americo Gambini, Vetralla 2000).
Di Ezio Tomassini abbiamo un garbato idillio pastorale “a braccio” disturbato dall’incubo del lupo che insidia il gregge, ambientato nei pascoli di Monte Calvo.
Più ambiziosamente, Francesco Pasquini riprende l’ormai antica tradizione delle lodi vetrallesi, incentrate sulle vicende storiche e sulle qualità ambientali e paesaggistiche elencate con sincera vena descrittiva (Numero unico 19 Maggio 1980).
La Guerra agli uccelli di Giovan Battista Amantini riveste una particolare attualità anche per aspetti marginali di un attività, la caccia, ancora oggi motivo di discussione e di contese tra viterbesi e residenti nelle vicine province (soprattutto i “terribili ternani”) (Foglio volante Guerra agli uccelli, Tipografia Agnesotti Viterbo).
Una sensibilità non convenzionale dimostra Francesco De Sanctis nel ricordare luoghi e paesaggi tra i quali la fontana di piazza S. Egidio.
Vincenzo Tirasacchi -che fu anche pittore- canta ancora il Monte Fogliano e i luoghi, vicini e lontani sull’orizzonte, legati a personali ricordi (57 gradi a nord-est. Pensieri, liriche, poesie, racconti di vita e d'amore, Viterbo 1987).
Ancora più puntuale la memoria topografica di Domenico Pistella, che si sente parte viva di una tradizione poetica (e devota) in linea con Andrea Scriattoli nel descrivere e ridescrivere ambienti e sensazioni ereditati dal passato (Piccolo canto. Liriche, Roma 1950 - Ristampa 1984).
Del tutto differente l’ispirazione di Nicola Baldini, spesso irriverente ma vivace e aggiornato cantore delle bellezze di Vetralla e dei fatti di cronaca politica più rilevanti: nativo di Poppi ma Vetrallese convinto (Verdi colline) nel denunciare la speculazione edilizia della Selvarella. L’omonima composizione in dialetto per le elezioni del 1972 è stata da lui raccolta e pubblicata (Quando la libertà è troppa. Viterbo 1979, Id., Controcorrente, Viterbo 1988).
Di Agostino Pasquinelli, poeta a braccio, pubblichiamo una breve esortazione a non sporcare il bosco preziosa risorsa naturale.
Serafino Merlonghi, poeta a braccio, è qui rappresentato da due delle numerose ottave, che descrivono la divisione tradizionale in tre parti dell’abitato di Vetralla, fonte di rivalità e contese.
Con il grande Pierpaolo Pasolini torniamo alla poesia che si misura con l’attualità letteraria e con i temi di una geografia fantastica -dove Vetralla sta per il confine settentrionale del territorio di Roma- capace di legare storia e sensazioni, miti e natura (La religione del mio tempo. La Ricchezza, 3).
Domenico Rainesi in questa breve canzone si inserisce nel filone lungo e continuo della devozione mariana.
Alfredo Pasquinelli descrive ancora una volta Tre Croci con forte accento malinconico.
Alla nostalgia fa ricorso Domenico Birelli per rievocare Tre Croci e i luoghi della sua giovinezza, le inospitali montagne della Maremma ma anche, con sincera avversione, la falsa e burocratica Viterbo.
Una vena delicata e un sincero amore per Vetralla di un passato recente ma inesorabilmente trascorso ispira Mara Valeri, autrice di deliziosi quadretti (come La lezione all’aperto) e di rapidi schizzi dedicati a vie e angoli del centro storico, che abbiamo raggruppato arbitrariamente sotto il titolo di “Toponomastica poetica vetrallese” per evidenziarne la coerenza e anche l’accorata difesa di valori minacciati (Le favole del tempo. Poesie, Poggibonsi 1988).
Anche Vittorio Smera canta l’inesorabile trascorrere del tempo (ne La casa sull’aia), in costante ritorno alle radici che si nutre di ricordi letterari e di sensazioni sostenute da una visione aulica e severa del mondo contadino (Gente, così. Racconti vetrallesi, Viterbo s.d.; La terra, l'uomo e Dio, 1980).
Vivace e motivato, Franco Pistella unisce alla ironica rivisitazione delle tradizioni, corroborata dall’uso del dialetto, quasi a riprendere le “fantasie” del Serafini, ma attento alle atmosfere e al patrimonio delle tradizioni (Scardafiorini, Viterbo 1997).
Di Vincenzo Marro si può dire che la sincera vena ispiratrice delle rituali lodi del paese natio si fa appassionata testimonianza quando, con l'uso del dialetto, fissa lucidamente le cose e le persone importanti delle tradizioni artigiane (esemplare il ricordo di Peppe d'Augusto, e Augusto di Peppe, dove la cronaca ancora attuale sfuma nell'atemporalità dei gesti e dei caratteri).
Gianfranco Stivaletti descrive con brevi schizzi momenti tipici della vita vetrallese; più modestamente, Piero De Simoni aggiunge la sua voce ai cantori di Tre Croci, tutti più o meno radicati nell'antica poesia "a braccio".
Con Gabriella Sica, poetessa di riconosciuta sensibilità, torniamo a percorrere, con un melodioso accompagnamento musicale, le umili ma orgogliosamente vive e selvatiche membra di un territorio contadino quotidiano; e quasi magica è la sua Alba a Vetralla (Poesie familiari, Roma 2001).
Candida Proietti esprime una partecipazione attenta alla realtà vetrallese vista come esemplare, ripetibile, rappresentativa di dimensioni umane valide per tutti; mentre per Diego Serafini non vi è contraddizione tra una condizione attuale alienata e insensibile alla dignità della persona e la perdita di significato di una eredità storica diventata muta e sterile.
A questa conclusione - provvisoria e contingente ma non casuale - vogliamo aggiungere una considerazione finale da proporre al lettore di questo primo schizzo della poesia dedicata a Vetralla come patria, come luogo e come paesaggio storico fisicamente unico e riconoscibile.
Non vi è denuncia più dura e radicale della trascuratezza, propria dei nostri giorni, nei riguardi del patrimonio di valori del passato, di quella espressa in punta di piedi dai poeti; così che volgarità edilizia, consumismo e disprezzo per la cultura e per l'ambiente, proprio in quanto respinti all'esterno del sacro recinto delle emozioni poetiche, ci appaiono quasi frutto di degenerazioni, se non diaboliche, per lo meno da condannare senza appello.
La raccolta è stata organizzata in modo da evitare qualsiasi esclusione non basata su una oggettiva estraneità delle opere al tema conduttore; si è cercato di documentare sia la poesia scolastica che quella dei poeti "a braccio", privilegiando naturalmente una sincerità d'ispirazione che non sempre è facile riconoscere.
Vogliamo anche citare, nel panorama assai ampio e variegato delle recenti pubblicazioni sulla poesia del Viterbese, almeno le annuali Antologie poetiche (dal 1999) dell'Accademia Barbanera di Castiglione in Teverina, il volume La Fuscella. Antologia di poesie dialettali viterbesi, Viterbo 1999, e A. Ricci, Fare le righe. L'ottava rima in Maremma. Vita e versi di Delo Alessandrini poeta improvvisatore, Viterbo 2003.
Non si è ritenuto, in questa antologia che pur comprende qualche poesia dialettale, di appesantire la lettura aggiungendo note o spiegazioni particolari. Va solo ricordato che, nella parlata vetrallese, il plurale dei termini maschili ha la desinenza al femminile, secondo il detto
"Nò dicemo le faciole co' le sasse
e le carabbiniere cò le bbaffe"

Ulteriori approfondimenti potranno consentire di meglio comprendere la varietà della tradizione poetica vetrallese; crediamo che la funzione di questo lavoro (dopo il cenno in M. De Cesaris, Vetralla: ieri, oggi e domani, Vitorchiano 1996, pp 46-47) sia essenzialmente, come si è detto, quella di documentare il sincero e disinteressato apprezzamento dei poeti per un insediamento e un paesaggio costantemente in bilico tra una storia e una natura da ammirare e una insoddisfacente condizione attuale.
Un particolare ringraziamento va a quanti hanno collaborato; prima di tutto a Davide Ghaleb che mi ha aiutato nel contattare i poeti di oggi; a Domenico Rainesi, Daniele Camilli, Rita Moracci, Fulvio Ferri, Valentina Pasquinelli, Stefania Ricci e infine a Diego Serafini e Candida Proietti, giovani poeti che concludono questa nostra rassegna con versi appositamente composti.